18/05/08

Il sisma in Cina, 5 milioni di senzatetto


Troppe scuole crollate, il governo apre un'inchiesta e il premier (con la tv) visita le zone colpite. C'è una opinione pubblica anche a Pechino
Simone Pieranni
Pechino

Il bilancio ufficiale del terremoto parla di 22mila morti accertati, ma il numero potrebbe arrivare a 50 mila. Quasi 5 milioni i senzatetto, mentre ieri una nuova scossa di assestamento ha provocato danni alle comunicazioni appena ripristinate. In Sichuan l'ecatombe è ufficiale, come ha detto il premier Wen Jiabao. Sulle cause del disastro il governo prende le prime decisioni: verrà aperta un'inchiesta - che partirà però solo dopo la normalizzazione della situazione - sulle numerose scuole distrutte dal terremoto. «Se dovessimo verificare che vi sono stati problemi legati alla costruzione degli edifici scolastici, tratteremo i responsabili senza alcuna tolleranza», ha detto un responsabile del ministero dell'Istruzione, Han Jin. In questo modo Pechino (anche il presidente Hu Jintao ha visitato le zone del disastro) risponde in modo fermo alle polemiche nate dalla constatazione che, a fronte della distruzione di scuole e case, altri complessi - palazzi del partito e del governo locale - avrebbero invece resistito. Alcuni sopravvissuti avevano già posto il problema, come la madre di una bambina deceduta nel collasso di una scuola: ««Mia figlia non è stata uccisa dal terremoto ma da una struttura derelitta. Non è un disastro naturale, è un disastro umano».
Oltre ai problemi legati alla tenuta delle dighe e ai laghi creati dai detriti, è allarme anche per le possibili fughe radioattive: il principale laboratorio di ricerca atomica della Cina si trova a Mianyang, proprio al centro della provincia più colpita, il Sichuan. Il portavoce del ministero degli esteri Qin Gang ha negato il problema ma l'attenzione resta alta: nel giorno stesso del terremoto il problema era stato affrontato in una riunione convocata dal ministro della protezione ambientale Zhou Shegxian. Secondo alcune fonti la zona del laboratorio è stata evacuata ed è stata una delle prime tappe del presidente Hu Jintao nelle zone disastrate.

Uragano, Rangoon «raddoppia» i morti

«Sono 77mila le vittime del ciclone», ha ammesso solo ieri la Birmania. E esplode il caso dell'ingerenza umanitaria: è giusto aiutare chi non vuole?
Emanuele Giordana

Mentre a sorpresa la televisione birmana stima che le vittime del ciclone Nargis siano ormai oltre 77mila, monta la frustrazione della comunità internazionale verso la quale la giunta continua a opporre il diniego dei visti e l'ingresso di aiuti che non siano direttamente sotto il suo controllo. Una frustrazione che dilaga anche tra gli «umanitari» italiani e che ha fatto dire al ministro degli esteri francese che l'atteggiamento delle giunta confina con il «crimine contro l'umanità», facendo pensare a molti che sia arrivata ll'ora di rispolverare un vecchio concetto di cui fu proprio Kouchner fu uno degli ideatori: l'«ingerenza umanitaria», il diritto cioè di bypassare i governi che ignorano i diritti essenziali dei propri cittadini.
La tardiva ammissione della giunta sul numero delle vittime supera di poco la conta al ribasso che gira da giorni alle Nazioni unite ed è ben al di sotto di quella più elevata, oltre 100mila, di cui si parla con insistenza. E se i generali birmani ammettono 55mila dispersi, le organizzazioni umanitarie fissano il bilancio dei senzatetto e delle persone in stato di grave necessità a due milioni e mezzo. Nondimeno, i generali continuano a restare sordi agli appelli che arrivano da tutto il mondo e dai paesi «amici» (quelli dell'Asean) a cui l'Onu vuole affidare l'ultima carta di una possibile mediazione. Mentre, dicono le scarse corrispondenze dal paese, gli sfollati cominciano a morire di freddo, sono colpiti da epidemie, soffrono la fame e bevono acqua non potabilizzata.
L'unica concessione è l'ammissione di cento medici dai paesi confinanti e una visita che la giunta ha consentito ai diplomatici stranieri nelle zone del delta, ma senza giornalisti e nei luoghi che i militari decideranno. Visita guidata cui non potrà partecipare Louis Michel l'inviato della Ue in Birmania, ripartito per «altri impegni», mentre forse ci andrà un inviato di Ban Ki-moon, l'algido segretario dell'Onu che sulla questione birmana sta tenendo il punto, molto irritato dall'atteggiamento dei militari.
Se la comunità internazionale sembra trovarsi in una sorte di impasse, il dibattito sulle forme dell'«ingerenza umanitaria» cominciano a circolare con insistenza, seppure con toni diversi. Sono della stessa opinione Sergio Marelli, presidente delle ong italiane, e Nino Sergi, di Italia-Aiuta, un comitato che raccoglie fondi per interventi di emergenza. Sergi sostiene che, in casi come questi, l'ingerenza è «obbligatoria e doverosa se è vero che esiste quello che infatti si chiama imperativo umanitario». «Vista l'evoluzione del quadro - argomenta Marelli - non si può non pensare a una pesante e urgente ingerenza perché quelli che sono lesi sono diritti fondamentali». Ma né l'uno né l'altro si spingono a pensare a un intervento che preveda l'uso della forza: «Può complicare le cose e, soprattutto, è un meccanismo - dice Sergi - che non si riesce a dominare». Ne conviene anche Marelli: «La forza è l'ultima ratio e non credo si sia fatto ancora tutto il possibile sul fronte diplomatico». Preferisce invece non commentare Marco Bertotto di Agire, consorzio di ong internazionali che raccoglie fondi per l'emergenza: «In questa fase in cui abbiamo operatori sul campo non tocca a noi prendere una posizione che potrebbe compromettere il lavoro dei nostri sul terreno. E' un compito che spetta alla politica». In questo senso va forse interpretato anche il silenzio di Oxfam che alle nostre domande non ha risposto, limitandosi a ricordare per altro che la strada dei lanci degli aiuti - una possibile ingerenza dal cielo - si sono spesso dimostrati inefficaci e controproducenti.
Dal punto di vista del diritto, Gianni Rufini, docente all'Università di York e all'Ispi di Milano, spiega che i presupposti teorici per l' «ingerenza umanitaria» esistono tutti: la «responsabilità di proteggere» individui in stato di necessità è infatti «una regola sancita in più documenti della comunità internazionale e impone di aiutare i paesi che non hanno le risorse per rispondere alle esigenze primarie dei propri cittadini. Ma quest'obbligo sussiste anche - aggiunge - nel caso di incuria o aperta ostilità verso le vittime». Ribadito dall'assemblea generale dell'Onu nel 2001 ha già dei precedenti: «Come nel caso dell'autorizzazione alle forze dell'Unione africana per agire in Darfur. In quel caso però si trattava di un conflitto, non di una catastrofe naturale. Comunque, dopo quanto accaduto negli anni Novanta dalla Somalia ai Balcani, anche i capi di stato e di governo hanno sancito nel 2005 il principio dell'ingerenza umanitaria». E l'uso della forza? «Teoricamente è possibile ma un intervento armato potrebbe trasformarsi in una guerra e quindi il rimedio potrebbe essere peggiore della causa che lo ha stimolato».

01/05/08

La storia della Ballerina e l’Ultras

La ribellione, la violenza, la deriva politica. Il fascino spaventoso delle curve italiane in un romanzo della scrittice livornese Elisa Davoglio. «Onore ai diffidati», l’immersione di una donna nel ventre del tifo

Atala è un romanzo di François-René de Chateaubriand, il nome di un’eroina, di una donna forte, unica nel suo genere, una donna che odora di bene. Nel romanzo di Elisa Davoglio Onore ai diffidati (Mondadori, 16 euro) Atala diventa altro, un’eroina storta che puzza di male e confusione. «Non è un bel personaggio - dice l’autrice della sua creazione - come del resto la storia che racconto non ha certezze».
La trama è semplice nella sua complessità. Atala è una bella livornese di vent’anni che come tante livornesi ha deciso di lasciare il mare, il porto, i muri coperti dalle scritte dei tifosi amaranto per approdare in una grande metropoli agitata e forse anonima. In una Milano evanescente Atala comincia a perdere i pezzi di sé, si iscrive all’università ma non riesce a studiare molto, ha un gatto ma non riesce (come Audreuy Hepburn in Colazione da Tiffany) a dargli un nome, danza ma non riesce a trovare un baricentro. Trova un ragazzo però: Luca. E su di lui punta tutto. Forse troppo. Quando Luca viene arrestato dalla polizia il mondo di Atala, già precario, precipita. L’accusa è spaccio legato alle tifoserie calcistiche. Ed è così che la ragazza scopre che l’uomo con cui ha condiviso il letto e a cui ha insegnato le cinque posizioni della danza classica è un ultras della mitica Fossa dei leoni e che in fondo non lo conosce veramente. Il libro è quindi un viaggio che facciamo insieme ad Atala nel mondo di Luca, degli Ultras e in generale nelle contraddizioni della nostra società.
reportage sul tifo. Interessava il mio punto di vista femminile. Sono sempre stata una ragazza sportiva. Il calcio mi piace, so cos’è un fuorigioco, ho alle spalle il rigore della danza, il nuoto sincronizzato, ho persino scoccato frecce. Quando ho cercato di contattare dei tifosi mi sono trovata davanti ad un muro. Molta diffidenza. ’Che cavolo vuoi? Vai a quel paese’, mi dicevano. Ero la ficcanaso, quella che chiedeva troppo. Più il muro diventava alto, più volevo capire». Il punto di partenza della Davoglio era l’inquietitudine generata dal male, dalla non chiarezza delle immagini degli scontri domenicali: «facevo come tutti l’equazione ultras uguale violenza. I ragazzi con passamontagna e spranghe mi facevano«Questo libro ha un inizio casuale. La primavera scorsa mi era stato dato il compito di fare un paura, ma mi incuriosivano anche. Non riuscivo ad accontentarmi delle spiegazioni dei media, volevo approfondire la faccenda. Quindi ho deciso consapevolmente che lo strumento reportage non era utile per capire fino in fondo questo mondo. Dovevo usare l’immaginazione, la fantasia, il romanzo. Perché solo così avrei avuto la possibilità di cogliere le sfumature e tutte le contraddizioni. Solo così mi sarei liberata dai pregiudizi moralistici. Il mio obbiettivo era quello di non giudicare, ma di descrivere qualcosa che per il mio Io di prima poteva essere inspiegabile. La mia immersione doveva essere totale, ma senza verdetti».
Elisa Davoglio, 32 anni, conosciuta soprattutto per la raccolta Olio Burning (Perrone, 2006), ha trovato proprio nella sua scrittura morbida, sinuosa, estremamente precisa il suo maggiore alleato. «Agli ultras non ho mai detto bugie. Non mi sono mai finta altro da me. Gli dicevo ’che male può farvi la poesia?’, mi sono fatta conoscere per quella che sono, Elisa Davoglio, poetessa. Poi ho consigliato loro di guardare su internet. Quando scoprivano che non ero la solita giornalista impicciona si aprivano, alcuni mi hanno anche fatto leggere le loro poesie. In generale parlare con gli ultras mi ha fatto capire molto. È un mondo vario. Fatto di tante appartenenze dove convivono il ragazzo ricco con l’ambulante, un mondo fatto di treni, stazioni, trasferte, riti sempre uguali. Dove il gruppo è tutto, è forte, compatto, esaltato, cattivo. Dove ogni personalità è cancellata e dove si ha l’illusione di realizzare un’esistenza. Ho avuto un grande aiuto dal sito www.asromaultras.it e in particolare da Lorenzo Contucci che lo cura. Lorenzo è un avvocato, un ex ultras ed è lui che mi ha fatto capire in termini legali cosa significa una diffida».
Il mondo del calcio nel romanzo della Davoglio esce fuori come un mondo contorto, violento, pericoloso. Un calcio in continua mutazione genetica, corrotto dai soldi e dai procuratori. Ma l’autrice invece ha voluto iniziare la sua danza letteraria con un’immagine sana dello sport: «ho inserito nelle prime battute la figura di Rossano Giampaglia. Lui ha allenato l’Under 21, da giovane ha fatto il centrocampista, accompagnava la nazionale maggiore, era amico fraterno di Marcello Lippi. Ha assaggiato la serie A con la Sampdoria e poi militato in B e C. Per noi era e rimane soprattutto un livornese. Un uomo che aveva scelto una carriera in tono minore per stare vicino alla sua gente, al suo mare. Si è arreso alla leucemia, ma il suo sorriso è molto caro a noi triglie livornesi. Atala lo incontra per caso in un maneggio, Atala che dice qualcosa di casuale sul calcio, Giampaglia che le chiede ’sei mai andata allo stadio?’ e poi la porta a vedere la partita. Ecco questo è successo a me Elisa ed è l’unico episodio autobiografico di questo romanzo. Mi serviva l’energia di quel sorriso per descrivere il dopo, il gorgo in cui si infila il mio personaggio».
Questa Livorno «dove si nasce tifosi come si nasce comunisti», questa città sana, incompresa, dove le ragazze all’esame di maturità «portano i sandali e hanno i segni dei lacci del costume dietro le spalle», questa Livorno è il motore di tutto. A Livorno essere di sinistra è nel dna, si nasce veramente comunisti: «anche Atala in fondo lo è, ma non ne ha consapevolezza» ed è questa Livorno che scorre nel sangue della Davoglio che trasforma Onore ai diffidati in un libro sulla politica, un libro che riflette il presente.
«La vicenda è ambientata a Milano perché mi interessava parlare della Fossa dei Leoni. Con lei è nata nel 1968 la storia della tifoseria Milanista. Gruppo apartitico, misto, tosto. La Fossa si è sciolta dopo un lungo conflitto strisciante che aveva preso a pretesto il furto di uno striscione ad opera di ultras juventini. La Fossa venne accusata di aver chiesto l’intermediazione della Digos. Un fatto inaccettabile per le regole degli ultras. Per protesta, perché presa di mira, la Fossa si è dovuta sciogliere. Però parlando con gli ultras la fossa rimane l’Eden, l’ideale. Oggi c’è una pericolosa deriva verso l’estremismo di destra soprattutto, ma anche di sinistra. La politica entra nello stadio di prepotenza, perché il calcio è stato svuotato dei suoi valori. Troppe partite, troppa tv, troppi soldi. Non a caso Luca, il taciturno, è una della Fossa. È leale Luca, la sua estrema onestà è qualcosa che potrebbe portare alle estreme conseguenze. Ha questa tendenza al martirio che non può esprimere. Ha gambe forti e delicate insieme. Ma come gli antichi brigatisti potrebbe premere un grilletto da un momento all’altro ed uccidere per integrità. Fa una tesi sull’eversione nera e rossa degli anni ’70, ha un eskimo, un motorino scassato. Sono una zecca certa, dice di se stesso, una zecca di una sinistra non più di moda. È uno che sarebbe pronto ad affrontare quello che c’era prima, gli scontri, la targa da terrorista, ma sa che adesso è tutto diverso, sa che la rivoluzione non tornerà, perché non solo è proibito farla, ma anche pensarla. Luca è un personaggio positivo, estremamente buono, ma anche estremamente pericoloso».
C’è molta riflessione sulla politica di oggi nel romanzo della Davoglio. «Quando Atala va nel quartiere di Luca lo trova abbandonato, con i lampioni rotti. L’italiano quando ha dei problemi pratici è facile abbindolarlo. La destra ha fatto questo. Ha detto al popolo che il problema sono i Rom, gli stranieri e il popolo ha creduto a questa bugia attanagliato dalla paura della povertà. La sinistra non ha colto il disagio, anche perché ormai è lontana dalla gente. Non c’è più lo scontro sociale. Anche i boicottaggi sono all’acqua di rose, si partecipa alle maratone contro il nucleare indossando scarpe Nike. Le sedi dei partiti sono tutte in zone eleganti e in generale la sinistra oggi è pariolina e radical-chic. Vive nelle stesse modalità dell’estrema destra, nello stesso mondo, con gli stessi orizzonti. Forse vanno anche a cena insieme».
Questi orizzonti mischiati tra destra estrema e sinistra poco radicale sono ben descritti dall’autrice. Personaggi strani quelli di Onore ai Diffidati. Nessuno di noi vorrebbe incrociarli per strada, di certo non li vorremmo come amici. Alexhooligan, Azdin, il Pirata sono immersi ognuno nel suo lato oscuro. Amalia è bella, balla da dea, ma desidera una morte che non la deluda. Melissa è un’adolescente Lolita sua malgrado, sedotta da un quarantenne senza scrupoli. E poi c’è Marco. Il classico bravo ragazzo, studia da medico, ha una vita ordinata (troppo?). Però poi tra le pieghe della sua vita perbene, nel suo quartiere perbene, si scopre un’appartenenza a Forza Nuova, un odio estremo verso i migranti, un tifo malato e una furia devastatrice che lo ingoia. Marco, come in fondo Atala la ballerina che non sa ballare veramente, è solo. Fa l’amore sognando lo stupro che un giorno forse farà. Accoltella Marco. Fa male. Ha occhi devastati da un odio che l’autrice non ci vuole totalmente spiegare. Personaggi negativi che la Davoglio non giudica «perché per me è più importante l’uomo o la donna che ci sono dietro. La loro essenza che non mi voglio dimenticare». In questo Elisa Davoglio ci ricorda il Calvino de Il sentiero dei nidi di ragno, nessuno è vero carnefice o vera vittima. Tutti stritolati da un meccanismo che va oltre loro. Fermezza, violenza, estrema onestà di questi belli e dannati del terzo millennio.