30/09/09

Cargo Zanoobia: quei fusti griffati sulla nave dei veleni

di Andrea Palladino - Genova
È buia la stiva della motonave da cargo Zanoobia, ottantuno metri di lunghezza e la bandiera siriana sul pennone. Una oscurità che diventa improvvisamente pesante, insopportabile, quando i portuali entrano per verificare il carico. Il respiro viene a mancare, e la poca luce che scende in coperta appena illumina le pareti rigate dai liquidi fuoriusciti dai bidoni di ferro, accatastati su tre livelli, legati con corde. Migliaia di fusti, più di duemila tonnellate di scorie velenose, mortali, che hanno girato il mondo per un anno e mezzo. Approdate alla fine - il sette maggio del 1988 - a Genova, in quell'Italia che li aveva spediti per farli sparire verso le mete del neocolonialismo dei rifiuti pericolosi. Zanoobia è uno dei tanti nomi scritti nelle storie delle decine di navi dei veleni che hanno trasportato, grazie ad una rete criminale di mediatori, faccendieri e trafficanti, le scorie del nostro sistema industriale. Un viaggio tortuoso e silenzioso, partito da Massa Carrara un anno e mezzo prima, per approdare di nuovo in Italia dopo aver attraversato il canale di Suez, tre continenti, un oceano ed infine il Mediterraneo.
Su quei fusti riportati in Italia della Zanoobia è disegnata una mappa agghiacciante. Nomi noti, marchi che valgono miliardi, produttori della nostra chimica quotidiana. Non fabbriche semi clandestine del casertano o laboratori, ma il gotha dell'industria europea. Ogni fusto ha un'etichetta, un nome di un produttore. Quasi sempre ha anche un indirizzo di provenienza, rimasto intatto dopo il viaggio alla ricerca di un posto dove scaricare. Una mappa di provenienza delle scorie - mandate agli organizzatori dei viaggi dei veleni - che a distanza di anni riappare dalle carte processuali.
La fonte è assolutamente ufficiale. Dopo lo sbarco della nave il Tribunale di Genova chiese di effettuare una perizia sui 10.500 fusti stoccati nella stiva della Zanoobia. Incaricato del compito fu Sergio Mattarelli, che elencò le 140 aziende europee e statunitensi con i nomi stampati sulle etichette. Un documento finito poi in un processo civile - il cui appello è oggi ancora in discussione - dell'avvocatura dello stato contro i produttori delle sostanze ritrovate sulla nave. Le aziende rappresentano una buona fetta del Pil italiano: si va dalla Pirelli alla tristemente nota Acna di Cengio, dalla Farmoplant alla Enichem, solo per citare i nomi più noti. Ma i rifiuti non erano solo italiani, confermando il sospetto che la rete di smaltimento illegale coinvolgesse l'intera Europa. Nelle etichette erano ben visibili i nomi di industrie tedesche (come la Basf), olandesi (la Delfzijl Polymer), belghe (la Dow corning) e inglesi (la Ici). Un posto di rilievo lo avevano alcune aziende multinazionali Usa, come la Monsanto ed altre fabbriche della costa est. In totale l'elenco stilato a Genova dal perito del Tribunale è composto da 140 nomi.
Non tutte le aziende, però, sono finite nell'atto di citazione preparato dall'avvocatura dello Stato, per conto della Protezione civile che gestì l'emergenza all'epoca, nel maggio del 1995, ovvero sette anni dopo lo sbarco della Zanoobia. Il documento - che ha dato origine ad una serie di processi civili davanti alla I sezione del Tribunale di Milano - chiedeva ai produttori delle sostanze di rimborsare i 16 miliardi di lire spesi per lo smaltimento dei rifiuti tossici sbarcati dalla Zanoobia. Delle 140 aziende nominate nella perizia nell'atto di citazione vengono chiamate in giudizio trentotto ditte. Una parte dell'originario elenco era stato depennato perché le etichette si riferivano ad aziende venezuelane che avevano semplicemente fornito i contenitori per reinfustare parte dei rifiuti sbarcati a Puerto Cabello, durante il lungo e complicato viaggio della Zanoobia. Ma alcuni nomi - soprattutto di aziende non italiane - sono semplicemente spariti. Le vie del diritto civile sono, come è noto, spesso oscure ai più. Nulla di fatto dal punto di vista penale, perché nessuno è stato processato. La corte di appello di Genova il proscioglimento per prescrizione dei reati ambientali. E nessun magistrato, d'altra parte, ha contestato i reati più gravi che potevano bloccare i termini per l'estinzione del procedimento, nonostante le tantissime denunce presentate tra il 1987 e il 1988 sulla vicenda.
Esisteva, dunque, quella via clandestina dei rifiuti industriali, denunciata con vigore dalle associazioni ambientaliste. Per la vicenda Zanoobia i mediatori sono aziende ben conosciute nel settore. Il principale broker - citato in giudizio civile con le aziende produttrici - è la Jelly Wax di Renato Comerio, la stessa azienda che sempre tra il 1987 e il 1988 organizzò l'esportazione di altri rifiuti tossici verso il Libano. C'è poi la Ambrosini di Genova, che aveva fornito i contatti per il primo approdo del carico dei 10.500 fusti arrivati a Genova, partiti da Massa Carrara nel febbraio 1987 con la motonave Lynx. Ambrosini aveva garantito uno smaltimento «a norma» a Gibuti, nel corno d'Africa, non lontano dalla zona di Bosaso dove Ilaria Alpi aveva cercato notizie su altre navi - ma su traffici simili - nel 1994. Aziende protagoniste della stagione delle navi dei veleni, mai condannate, con processi che si sono persi nei tempi della prescrizione.
Le uniche tracce processuali rimaste - che però definiscono con chiarezza la catena delle responsabilità - sono chiuse nel lunghissimo processo civile, arrivato a sentenza di primo grado nel 2006. «Risulta che la Jelly Wax ha ricevuto, tra la fine del 1986 e l'inizio del 1987 - scrivono i giudici della prima sezione civile di Milano - rifiuti speciali o tossico nocivi da diverse aziende italiane». È l'inizio di un lungo viaggio, il cui racconto spiega il funzionamento della rete internazionale dei broker di rifiuti. Un viaggio che vale la pena oggi ripercorrere a ritroso.
(1 - continua)
di Guglielmo Ragozzino
Archeologia chimica
Nella stiva della Zanoobia, nell'inverno di 22 anni fa, c'era di tutto, in fatto di veleni. C'erano resti della lavorazione dei farmaci, delle concerie, delle fabbriche di colori, di ogni specialità chimica. Se il carico fosse recuperato, uno studioso del futuro potrebbe ricostruire le caratteristiche dell'industria mondiale in un passaggio del XX secolo. Si dice che gli archeologi, per conoscere un'epoca lontana, ne studino i resti, in altre parole i rifiuti. La gestione comune dei rifiuti pericolosi e la evidente abitudine di non trattarli secondo scienza e coscienza, ma di disfarsene senza criterio, spingerebbe lo studioso in questione a farsi una certa idea della moralità diffusa nel capitalismo industriale di fine millennio.
Siccome il disgusto morale sarà, anche allora, una perdita di tempo, il nostro discendente passerà oltre. Vedrà molti fusti, migliaia, e poi carte, nomi. I nomi non gli diranno molto. Si immaginerà una lunga serie di uomini e di donne al lavoro, poi espulsi, con seri problemi di salute, con vite brevi.
Già oggi, quando il secolo nuovo è appena cominciato, Montedison, Montedipe, Farmitalia, Acna, Farmoplant, Enichem, non esistono più. È una chimica inghiottita in qualche vortice dello spazio-tempo finanziario, lasciando dietro di sé un'archeologia industriale di capannoni abbandonati e l'inquinamento senza fine delle terre e delle acque. Qualche nome legato ai farmaci esiste ancora: Ciba, Sandoz, Geigy, Upjohn, Wellcome, Rohm & Saas. Poi sopravvivono Bayer, Basf, Hoecht, la triade della Farben Fabriken denazificata dagli alleati alla fine della guerra; e ancora Monsanto, quella degli Ogm, e Dupont: in tutto, tra grandi nomi e piccoli nomi - quasi sconosciuti questi ultimi allo studioso - nella stiva sono stati individuati 152 nomi di altrettante imprese industriali o affini.
Le sedi italiane di cotante imprese, raggiunte dal collettore di rifiuti, erano sparse in molte regioni d'Italia, soprattutto nell'operoso nord-est. Il prezzo che si pagava allora è di difficile calcolo, anche perché i documenti sono un po' «bugiardini». Qualcuno ha parlato di 500 dollari per tonnellata. In quell'epoca i controlli erano davvero scarsi, in particolare in Italia; e la facilità di smaltire da qualche parte rifiuti, pericolosi e indifferenziati, teneva i prezzi bassi. Con qualche legge più sensata, qualche multa, qualche guardia in più, il prezzo sarà poi volato alle stelle, tanto da interessare le potenti strutture industriali della malavita.
[fonte: "il manifesto"
martedì 29 settembre 2009]

27/09/09

Reportage dal raduno padano di Venezia - Venezia invasa

Sono tornati, come ogni anno. Riva dei Sette Martiri e l’adiacente via Garibaldi (una toponomastica che la dice lunga sull’identità veneziana) invasi dal popolo xenofobo della Lega (loro dicono in ottantamila. la questura trentamila, ma se vi fidate di uno che questi luoghi li conosce bene, non arrivavano a diecimila, a meno che la stragrande maggioranza non fosse in gita in giro per la città e non nel luogo convenuto). Sono arrivati urlando “padania libera” (minuscola, la p, scrivo io, da sempre, dato che la padania non esiste), perché il federalismo non gli basta più. Razzisti più che mai, arroganti più che mai, volgari più che mai e adesso pure violenti, perché a qualche centinaio di metri da lì, in Calle degli Specchieri, in un locale gestito da una famiglia egiziana, un cameriere veniva bastonato a sangue perché “sporco albanese” da otto razzisti con la camicia verde della Lega che, non contenti, devastavano poi il locale. Ovviamente il capogruppo in comune, Mazzonetto, ci metteva un nanosecondo a dire che si trattava di infiltrati, mentre là, dal palco, i proclami contro chi “non è dei nostri” erano l’unico tema vero di cui si parlava, ripetuto da tutti e con toni inequivocabili. Non solo: farneticazioni terribili contro “l’islamizzazione delle nostre terre”, e allora ecco il ministro Zaia (che molti qui vorrebbero candidato a governare il Veneto, altri invece preferirebbero il sindaco di Verona Tosi), eccolo proclamare che il crocifisso deve stare in ogni classe, nei municipi, perché la Lega porta avanti i valori cristiani, sottolinea, certo, non fosse che la bestemmia ricorrente pare essere l’unica maniera di comunicazione del popolo padano, pronunciata però in perfetto dialetto veneto e lombardo, ché nelle scuole quello bisogna insegnare, dicono dal palco. Il dialetto, non la bestemmia. Vengono i brividi a sentirli parlare. E anche a leggere i giornali locali, dove c’è il ritratto del Veneto di oggi, che mette in prima pagina il raduno leghista e, di spalla, la sua diretta conseguenza: un operaio di Portogruaro vittima di un incidente sul lavoro, in cura al Centro Ustionati di Padova, aggredisce l’infermiera congolese che lo sta medicando perché è “negra”. Il solerte giornalista, dopo aver definito folle e indecente il gesto, sente poi il dovere di chiosare che l’infermiera è “tra l’altro molto valida”. Tra l’altro cosa? In altra pagina, il presidente della Provincia di Treviso, leghista, bolla come sanguisughe i lavoratori del sud residenti dalle nostre parti. Eccolo il Veneto di oggi. E qui, su questo palco, da questa “festa dei popoli padani”, partono gli slogan che poi faranno proseliti, che intaccheranno nel profondo gli animi dei veneti. Sono i presidenti delle province a essere i più agguerriti. Francesca Zaccariotto, presidente della provincia di Venezia, nonché sindaco di Sandonà, una che appena insediata ha visto bene di aumentare lo stipendio a se stessa e ai suoi assessori, dice che “per la prima volta ho fatto questo tratto di strada con sicurezza, perché c’eravate voi e non gli extracomunitari abusivi”, contro i quali proprio lei ha mandato la polizia provinciale e chiesto – e ottenuto – l’intervento dell’esercito. Chiude raccontando come ha fatto a conquistare Ca’ Corner. Narra in modo maldestro una sorta di fiaba di Calimero, dove la provincia era solo sporca del rosso dei comunisti e andava ripulita di verde.
Al bar arriva Miss Camicia Verde 2009 (così recita la fascia trasversale che indossa) e le camicie verdi si mettono in coda per farsi fotografare. È mulatta, guarda caso. Scelta per dimostrare che “noi non siamo razzisti”, ma svelando invece un doppio razzismo. Se l’extracomunitaria è giovane e bella , allora evviva. È il velinismo leghista, questo, se possibile ancora più becero di quello di Papi. Dal palco, nel frattempo, una voce si lamenta dei clandestini: “Dicono che noi siamo cattivi. Ma noi siamo riusciti a respingerli e pochi sono finiti in fondo al mare”. Dice proprio così, finiti in fondo al mare, come se si trattasse di scatole. No, non sono cattivi, loro. Di fronte al palco, come ogni anno, la signora Lucia Massarotto ha appeso alla sua finestra il tricolore. A metà mattina, cercano di oscurarlo con uno striscione della Lega di Gallarate, con su scritto un nient’affatto xenofobo “no alla moschea”. Ce ne sono altri, però, di tricolori, più indietro, ad accogliere il popolo padano, lungo Riva degli Schiavoni, militanti di un partito del governo italiano con addosso magliette con su scritto “padania is not Italy”. Che ne penserà Fini? È lui infatti un altro dei bersagli di oggi. Lui che “osa parlare di diritti agli immigrati”.
Arriva Bossi, il capo, il grande capo, come lo chiamano loro, a dimostrazione di come la Lega sia lontana dall’essere un partito dalla struttura democratica. Dicono ci sia stato un boato ad accoglierlo. Ma così come i trentamila, io il boato non lo sento. Ma sono di parte, potrebbero dire. Non di questa, di sicuro. Ma, da dove mi trovo, non sento nemmeno la flebile voce del capo. Mi avvicino al palco. Sta per dare la parola a quello che è e resterà per sempre il suo delfino o, se volete, il suo braccio armato (vedi ronde e tutto il resto). Nel farlo ci tiene a sottolineare che “Maroni l’ho allevato io”. E racconta di quando da giovani andavano a imbrattare i muri dei loro slogan, già allora colmi d’odio. Dopo l’amarcord, il ministro degli interni italiano esordisce urlando: “Padania libera!”. Sì, è proprio questo il vero messaggio politico di oggi. Alla Lega non basta più il federalismo. Ora vuole la secessione, e la vuole sul serio, “con le buone o con le cattive”, dirà Bossi, che tanto – parole testuali – “nemmeno la galera ci fa più paura”. Sono i loro slogan, a far paura. E Venezia dovrà respingerli con forza, nei prossimi mesi, per non ritrovarli padroni del municipio. Per non lasciare che Riva dei Sette Martiri si trasformi in una delirante Riva dei popoli padani.

16/09/09

Questo lunedi partecipa alla grande Chiamata al Risveglio Globale

Cari Amici,

Questo lunedi partecipa alla grande Chiamata al Risveglio Globale – negli oltre 1000 eventi che si terranno in 88 paesi, riuniamoci per qualche minuto in luoghi pubblici in tutto il mondo per fare pressione sui leader mondiali perché rimettano le negoziazioni sul clima sulla giusta strada! Dai uno sguardo alla nostra mappa del mondo e alla lista degli eventi per trovare un evento nella tua area, e poi firma per partecipare a questa straordinaria giornata d’azione:

I membri di Avaaz hanno registrato un incredibile numero di eventi: 1000 eventi in 88 paesi per la straordinaria chiamata al risveglio globale sul clima del prossimo lunedi!!

Un migliaio di eventi è un risultato impressionante, ma se centinaia di migliaia di noi vi prenderanno parte il 21 settembre – inonderemo i leader mondiali in riunione a New York il giorno dopo con un numero storico di messaggi provenienti dalla società civile, giusto in tempo per ravvivare i loro discorsi pericolosamente languenti sul clima. Clicca qui per accettare l’invito.

La maggior parte sono eventi "flash" molto brevi – che richiedono solo 5 minuti durante la pausa pranzo o tornando a casa dal lavoro. Sono divertenti, politicamente incisivi, e danno l’opportunità di incontrare altre straordinarie persone di Avaaz di tutte le età e percorsi di vita. Non c’è bisogno di nessuna preparazione – basta arrivare e portare qualche amico! Il pianeta ha bisogno di noi, uniamoci per salvarlo -- clicca qui in basso per trovare un evento nella tua area:

http://www.avaaz.org/it/tcktcktck_map

I leader mondiali e i media sono già attenti a ciò che faremo il 21 settembre. E la stampa sta riportando che le urgenti negoziazioni su un accordo globale per fermare la catastrofe climatica sono trascurate - la verità è che i nostri leader non stanno prendendo le decisioni serie che sono necessarie – sembra che sentano più pressione dalle imprese petrolifere e del carbone che dalla gente comune che è invece preoccupata di invertire la crisi climatica e dare il via a una nuova economia verde. il 21 settembre è il momento per innescare tutti questi cambiamenti.

Gli eventi saranno semplici e divertenti. Basta cercare altre persone che tengano sollevati cellulari i cui allarmi squillano all’ora giusta, convergere gli uni verso gli altri, fare una foto e una telefonata di sveglia ai nostri governanti. Le foto saranno raccolte e mostrate in televisione e ai leader mondiali per dimostrare la forza della nostra richiesta e le telefonate inonderanno gli uffici dei nostri governanti direttamente.

Non tutti gli eventi sono uguali – molti eventi di Chiamata al Risveglio sono entusiasmanti per la loro varietà -- monaci reciteranno preghiere, chiese suoneranno le campane, alcuni proietteranno il nuovo film sul clima "L’Era dello Stupido". Clicca qui in basso per trovare un evento nella tua area, rispondi per accettare l’invito e passa parola ad un amico:

http://www.avaaz.org/it/tcktcktck_map

La nostra richiesta ai leader mondiali è che firmino un trattato globale equo, ambizioso e vincolante che fermi la catastrofe climatica. La settimana prossima è l’ultima riunione dei leader mondiali sul clima! Dal momento che le loro negoziazioni si sono mostrate finora inadeguate , dipende davvero da noi. Sorprendiamoli.

Ci vediamo il 21,

Paul, Iain, Graziela, Ricken, Alice J, Ben, Milena, Brett, Taren, Pascal, Paula, Benji, Alice W, Luis, Raluca, Milena, Veronique, Chris, Margaret, Julius, e tutto il team di Aaaz

PS La Chiamata al Risveglio Globale è una giornata d’azione aperta e creativa che dipende dall’energia e dall’ingegno di tutti noi -- e quindi lo è anche ognuno dei nostri eventi. Se pensi di poter coinvolgere un leader, un personaggio pubblico o un’organizzazione ben noti; se hai a disposizione un teatro o un gruppo di danza o di arte che potrebbe fare un’esibizione vistosa in uno spazio pubblico; se puoi chiedere alla chiesa o ad un’altra istituzione di cui fai parte di suonare le campane o se vuoi invitare qualche collega a partecipare con te ad un flashmob di sveglia a o vicino al vostro posto di lavoro, o se vuoi dare un tuo contributo unico alla chiamata al risveglio in qualche altro modo che non possiamo neanche immaginare -- fai pure! Non aspettare la nostra autorizzazione -- basta che registri il tuo programma inviandocelo per email a open21@avaaz.org.

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15/09/09

Tranquilli, ci pensa Scajola, col nucleare pulito!

di Guglielmo Ragozzino
NUCLEARE
E Scajola da Bari insiste sul futuro atomico dell'Italia
Le scorie nucleari delle centrali atomiche narrate dal ministro Claudio Scajola, a Bari, durante l'inaugurazione della 73ma Fiera del Levante dove finiranno? Quanti navigli sarà necessario affondare per farle sparire, secondo l'uso nazionale, nei fondali italiani? Chissà se il mare di Bari sarà ritenuto degno di nota da parte degli specialisti nel disbrigo di scorie pericolose che in un nebuloso futuro, tra una trentina di anni, saranno incaricati della bisogna?
Imperterrito, Scajola, il ministro delle attività produttive, ha fatto il panegirico del nucleare all'italiana, assicurando i presenti e gli amici della Confindustria che tutto è in marcia, secondo le intenzioni del presidente del Consiglio, oggi assente giustificato. A ben vedere, il ministro non ha detto molto. Certo ha definito il referendum del 1987 che pose fine al nucleare in Italia, «scelta scellerata». Si è mai chiesto il ministro dove saremmo con il nucleare in funzione? Per ritornare al motivo di esordio: quante navi di scorie radioattive sarebbero state affondate lungo le coste italiane? Ora il ministro afferma che se ci fosse modo sarebbe ben lieto di averne una centrale sotto casa, nel Ponente ligure. Peccato che il Ponente non abbia spazio, così stetto tra mare e montagna per via della georgrafia «scellerata», per usare la sua parola. «Se no andrei a fare i comizi».
Nei giorni scorsi si sono fatti alcuni nomi di località possibili per eventuali centrali atomiche. L'onorevole Ileana Argentin, candidata alla segreteria regionale del partito democratico per la mozione Marino, ha ripetuto l'elenco di dieci siti, compreso Montalto di Castro e ha chiesto al presidente del Lazio di convocare un consiglio regionale straordinario e votare una «ferma opposizione a questa ipotesi». Scajola assicura che non c'è niente di deciso e gli allarmismi sono fuori luogo. E così il ministro fa affermazioni al tempo stesso preoccupanti e poco veritiere.
Prima di tutto, i tempi sono molto stretti. A fine mese scade il termine delle regioni per intervenire in ordine alla legge nucleare che è di fine luglio. Dopo, è fatta. Le Regioni non si sono ancora fatte sentire su questo punto. Dopo le ferie, il letargo. Le orgnizzazioni ambientaliste hanno l'intenzione di scuotere tale letargo. Inoltre il fatto che non ci sia nulla di deciso corrisponde all'intenzione di mettere le Regioni fuori gioco e inoltre di non perdere voti locali prima del voto di marzo per le regionali.
Ma vi sono altri due aspetti su cui riflettere. Scajola dice: «Stiamo parlando di un gruppo di dodici reattori raggruppabili in tre-quattro centrali». Un luogo con quattro centrali da 1.600 mw, oltre che far venire in mente, con un brivido, Cernobil o la gigantesca centrale nucleare giapponese di Kashiwazaki-Kariwa, spesso chiusa per incendi, fughe di gas, terremoti, ricorda anche Montalto di Castro. Il ministro pensa di installarvi tre o quattro reattori, visto che lo spazio c'è? Infine. Che non vi sia progetto, nel senso di qualcosa di ragionevole e studiato approfonditamente è vero. Qualche volta anche Scajola dice la verità. Ma questo non può che dare più preoccupazioni su quello che fa (o non fa) l'Enel che non sembra avere programmi, idee, tecnici per un'avventura tanto ardua.

MENTRE.....INVECE, ANCHE e NON SOLO!!!
di Andrea Palladino - CETRARO (COSENZA)
LA SCOPERTA
Un fantasma che riemerge dal passato
Erano voci, quasi leggende, o fantasmi, come ha raccontato al manifesto il Procuratore di Paola Bruno Giordano, che da cinque mesi si era messo con ostinazione alla caccia della nave fantasma, della prima nave dei veleni ritrovata. Poi, piano piano, le ombre che i sonar della Copernaut Franca - la nave messa a disposizione dall'assessore all'ambiente Silvestro Greco - hanno preso una forma, divenendo sempre più definite, contornate. I primi dati arrivati sul tavolo della Procura riguardavano le misure, enormi: 110-120 metri di lunghezza per 20 metri di larghezza. Dati che, insieme alla posizione del relitto, confermavano il racconto fatto da Francesco Fonti, il pentito di 'ndrangheta che nel 2006 aveva confessato di aver fatto parte di una organizzazione pagata per far saltare in aria e inabissare ben tre navi con scorie tossiche e radioattive. Poi nel primo pomeriggio di ieri dal ponte della Copernaut Franca è partito il segnale, la comunicazione che il robot Rav aveva filmato un lungo scafo di una nave mercantile, con un largo squarcio a prua e un oggetto - che sembra un bidone - schiacciato sul fianco. Il procuratore Bruno Giordano era quasi emozionato al telefono. Non ama i teoremi e ne fa un vanto investigativo. Tanti anni di Dda e inchieste sui peggiori omicidi di 'ndrangheta hanno rafforzato il suo piglio di giudice con i piedi per terra, concreto, abituato a parlare solo sui fatti incontrovertibili. Ed era quella immagine, quel filmato che aspettava per avere la certezza definitiva di aver colto il bersaglio.
La conferma ufficiale del ritrovamento del relitto riapre la pagina più oscura del traffico di veleni che l'Italia ha esportato, nascosto, interrato e inabissato per almeno un decennio. I tanti depistaggi, le morti di giornalisti, come Ilaria Alpi - che in Somalia inseguiva i fantasmi dei traffici di armi e rifiuti - e di investigatori, come il capitano di corvetta Natale De Grazia - che pagò con una morte mai spiegata la sua ostinata ricerca della verità - non sono alla fine riusciti a nascondere il corpo del delitto, lo scafo di una delle navi dei veleni.
Ora rimane da stabilire con certezza il nome della nave, il carico, l'armatore e chi organizzò quell'ultimo viaggio. Il primo dato certo è che il naufragio non esiste sui registri delle Capitanerie di porto. Per lo stato al largo di Cetraro non è mai affondato alcun vascello mercantile. E come nei migliori gialli gli investigatori dovranno dare ora un nome al cadavere. Il punto di partenza per riaprire e analizzare diciassette anni di fascicoli archiviati è la dichiarazione del pentito Francesco Fonti. Fu lui per primo - ascoltato dalla Dda calabrese nel 2006 - a raccontare di tre navi che la 'ndrangheta ha fatto affondare nelle acque calabresi. Una di queste era «la Cunski, che si spostò in acque internazionali - ricorda Fonti - in corrispondenza di Cetraro». Ovvero nel luogo dove il Rav calato dalla nave Copernaut Franca ha filmato il relitto.
Riscontri nel registro navale
Fino ad oggi il racconto del collaboratore di giustizia era stato ritenuto inaffidabile. Ma gli elementi di riscontro che il manifesto è in oggi in grado di ricostruire sono tanti. La Cunski era una nave da cargo registrata nel 1956, con bandiera britannica. Da allora ha cambiato nome quattro volte: è uscita dai cantieri come Lottinge, nel 1974 diventa Samantha M., nel 1975 Cunski e poco prima di affondare - nel 1991 - viene rinominata Shahinaz.
Sul registro navale la "Lottinge-Samantha-Cunski-Shahinaz" risulta rottamata sulla spiaggia di Alang, in India, nel distretto di Bhavnagar, il 23 gennaio del 1992. Il luogo indicato come destinazione finale è particolare. Alang è un gigantesco cimitero di navi cargo, dove centinaia di uomini, donne e bambini smontano con mezzi di fortuna i relitti portati qui dagli armatori. Impossibile, cioè, avere un riscontro certo dell'avvenuto smantellamento, a parte i supporti solo cartacei.
I dati della Cunski - presenti sul registro navale - sono incredibilmente corrispondenti con il profilo disegnato dal sonar. La lunghezza della nave è di 116,3 metri, misura compatibile con il dato raccolto di 110-120 metri. Ed anche la data della presunta rottamazione - gennaio del 1992 - combacia con il racconto del collaboratore, almeno nel caso della Cunski.
La storia delle navi dei veleni era iniziata ad essere conosciuta - e denunciata - tra il 1987 e il 1988. In quegli anni diverse navi partivano dai porti italiani dirette verso le coste africane e latino-americane. È il caso della Lynx, che venne respinta dal governo venezuelano dopo la verifica del carico. Ed è il caso delle navi affondate nella costa calabrese.
La via libanese
Nel 1988 in Libano le autorità ricevono una denuncia di un enorme carico di rifiuti tossici venuti dall'Italia un anno prima. Fu considerato il principale scandalo ambientale degli anni '80, tanto da servire come stimolo per la definizione della convenzione di Basilea del 1989 che proibisce l'esportazione incontrollata dei rifiuti. Il carico, che era stato organizzato dalla società di Opera, vicino Milano, Jelly Wax, diretta da Giorgio Pent era composto - secondo un report di Greenpeace dell'11 maggio 1995 - da 15.800 barili e 20 container, con pesticidi, esplosivi, solventi, farmaci scaduti e metalli pesanti. La Jelly Wax era una vera esperta in questo tipo di affari ed aveva organizzato nello stesso anno il viaggio della Lynx, facendo da intermediario con decine di industrie chimiche del nord Italia. Un modo per ridurre oltremodo i costi di smaltimento, spedendo carichi pericolosi verso paesi che si pensava li accettassero senza andare per il sottile.
L'operazione libanese del 1988 in realtà non andò in porto. Il governo italiano venne chiamato dalle autorità locali e di fatto costretto a riprendersi il carico indesiderato. Il 23 agosto arriva a Beirut una delegazione di esperti, guidata da Cesarina Ferruzzi - rappresentante all'epoca della società Mont.eco del gruppo Montedison, ed oggi presidente della Anida, associazione di Confindustria delle imprese di servizi ambientali - per organizzare il viaggio di ritorno delle scorie portate in Libano. Dopo pochi giorni attracca nel porto di Beirut «il mercantile jugoslavo Cunski - raccontò ai giornalisti Cesarina Ferruzzi - con a bordo materiali e attrezzature per la bonifica». Fu dunque la Cunski una delle navi coinvolte nel recupero delle scorie.
Nel recupero, però, risultarono coinvolte anche altre navi, secondo gli studi effettuati da Greenpeace: la Jolly Rosso - poi arenatasi al largo di Amantea - e le altre due navi citate dal collaboratore Francesco Fonti, la Voriais Sporadais e la Yvonne.
Le accuse di Greenpeace vennero smentite dal governo italiano nel 1995. Per l'allora ambasciatore italiano Carlo Calia, l'unica nave coinvolta era la Jolly Rosso. Ma sembrano oggi esistere altri indizi che rafforzerebbero l'ipotesi del coinvolgimento delle altre navi. Un documento dell'assemblea generale delle Nazioni unite del 18 luglio 1989 riporta, ad esempio, una denuncia venuta dalle autorità egiziane sull'affondamento della nave "Yvon" nel mediterraneo, dopo aver lasciato il porto libanese con un carico di rifiuti. Lo stesso coinvolgimento della Cunski nell'operazione di bonifica era stato affermato - come già detto - dagli esperti italiani giunti a Beirut nell'agosto del 1988.
Anni di depistaggi
È difficile dunque oggi ricostruire con assoluta certezza quello che è stato un vero e proprio giallo internazionale, che ha coinvolto il nostro paese per un intero decennio. L'Italia venne additata dalle organizzazioni ecologiste - come il Wwf e Greenpeace - come un paese canaglia dal punto di vista ambientale.
L'anno della svolta fu probabilmente il 1989, quando venne firmato l'accordo per bloccare i trasporti internazionali di rifiuti. Probabilmente la via degli affondamenti delle navi nel mediterraneo - per poter occultare le scorie tossiche e radioattive - si aprì dopo questo accordo, che rendeva difficile e rischioso lo sbarco dei rifiuti nei paesi africani. L'organizzazione delle navi a perdere, l'occultamento del carico - magari falsificando le carte di bordo - la manomissione dei registri navali per nascondere gli affondamenti e la fitta attività di disinformazione e di depistaggio dovevano avere necessariamente l'appoggio di una rete di complicità di alto livello.
[fonte: IL MANIFESTO del 13/09/09]

Berlusconi «arruola» Mike: «Mi incitava a continuare»

di Alessandro Braga - MILANO
Migliaia di persone a Milano per l'ultimo saluto
C'era la televisione ieri in piazza Duomo a Milano, ai funerali di Mike Bongiorno. Non poteva essere che così. Mike la tv non solo l'ha fatta, l'ha creata, costruita, plasmata, dagli anni del dopoguerra fino a ieri. Non fosse stato per l'infarto che lo ha ucciso martedì scorso, avrebbe fatto anche quella di oggi. E di domani. Allora la sua «figlioletta prediletta» non poteva mancare per l'ultimo saluto al suo «paparino».
C'erano le telecamere piazzate ovunque, pronte a riprendere ogni minima scena e proiettarla sul maxischermo allestito accanto al Duomo (e sotto lo schermo una maxipubblicità di Mediaset premium, sarà un caso?). C'erano il mondo dello spettacolo a salutare il suo decano. Il «nemico» Pippo Baudo, che si proclama allievo di Mike fin dagli esordi e ora «ultimo vecchio rimasto», che accompagna il «rivale» di sempre fuori dalla chiesa sulle sue spalle. Le autorità: il sindaco Letizia Moratti, il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà, il prefetto Gian valerio Lombardi. Ma soprattutto c'era piazza Duomo gremita di gente normale, qualunque, (la questura, una volta tanto, gonfia i numeri e parla di 15mila presenze) che è andata a salutare il «suo» Mike. Era il suo «popolo», che poi è il popolo della tv. Casalinghe, pensionati, uomini e donne dai capelli bianchi, molti dei quali hanno imparato l'italiano proprio da quell'americano che sorrideva loro dal piccolo schermo, in anni ormai remoti, quelli del bianco e nero. Ma anche giovani, che Mike se lo ricordano già a colori, accanto a Fiorello mentre pubblicizza questo o quel prodotto. Tutti lì ad applaudirlo. Pronti, non appena la telecamera zooma sul «pubblico», a fare «ciao ciao» con la manina, a prendersi il loro minuto di celebrità. Quello che Mike con le sue trasmissioni ha sempre regalato loro.
E c'era pure Berlusconi che, tanto per cambiare, ha cercato ancora una volta di rubare la scena «accaparrandosi», facendo suo, tutto l'arco della vita del presentatore, dagli anni della guerra all'ultimo periodo, dopo il loro «divorzio non consensuale». Ma anche questo non stupisce. Se Bongiorno è stato il «re delle televendite», il presidente del consiglio il mestiere dell'imbonitore lo sa fare ancora meglio. Non doveva parlare dopo la cerimonia. Gli unici interventi previsti erano quelli di Fabio Fazio, che ha parlato di una persona «capace di conquistarsi la stima degli italiani», e di Fiorello, che lo ha ricordato con «allegria», perché «era una persona a cui piaceva ridere». E allora lo show-man lo imita pure: «Hai visto che mi hanno dato il Duomo - dice con la voce di Mike - per Baudo mica l'avrebbero fatto eh! Allegria!». Anche Baudo, «l'acerrimo amico», lo ha omaggiato: «Nel nostro lavoro siamo tutti coristi, tu eri il solista». La cerimonia poteva finire qui. Invece no. Il premier prima si ritrae, fintamente timido, poi, con passo deciso, si avvicina al microfono. «Era un uomo buono, semplice, dispensatore di positività - dice - Per ricordarlo servono parole semplici». Lo definisce «un eroe della Resistenza, quel movimento che restituì all'Italia dignità e libertà», dice rubando (con che coraggio) le parole usate qualche giorno fa dal presidente della repubblica Napolitano. Poi la butta sul politico, e attacca il pippotto pro domo sua, portando Mike Bongiorno dalla sua parte anche post mortem: «A lui va il mio ringraziamento per come mi ha sostenuto nel mio servizio per l'Italia e per gli italiani - dice - Anche recentemente mi ha invitato a continuare». Dimostrare di avere dalla tua un «eroe nazionale» ti preserva da qualsiasi critica. Così ha anche la scusa per non partecipare all'inaugurazione della fiera del Levante a Bari e non ha nemmeno il tempo di andare a Gubbio dai suoi ragazzi del Pdl, e magari rispondere a qualche imbarazzante domanda sui rapporti con Gianfranco Fini. Ma lui ha buon gioco, e a favore di telecamera ripete che il funerale è stato «un successo, perché la gente apprezza chi fa ed è lontana da chi chiacchiera, calunnia, mistifica e insinua». Così, dopo che nel corso degli anni con la sua professionalità Mike Bongiorno gli ha regalato successo imprenditoriale e soldi a palate, ieri è riuscito anche a salvarlo da situazioni non particolarmente gradite. Allegria!

[fonte: IL MANIFESTO del 13/09/09]