15/09/09

Tranquilli, ci pensa Scajola, col nucleare pulito!

di Guglielmo Ragozzino
NUCLEARE
E Scajola da Bari insiste sul futuro atomico dell'Italia
Le scorie nucleari delle centrali atomiche narrate dal ministro Claudio Scajola, a Bari, durante l'inaugurazione della 73ma Fiera del Levante dove finiranno? Quanti navigli sarà necessario affondare per farle sparire, secondo l'uso nazionale, nei fondali italiani? Chissà se il mare di Bari sarà ritenuto degno di nota da parte degli specialisti nel disbrigo di scorie pericolose che in un nebuloso futuro, tra una trentina di anni, saranno incaricati della bisogna?
Imperterrito, Scajola, il ministro delle attività produttive, ha fatto il panegirico del nucleare all'italiana, assicurando i presenti e gli amici della Confindustria che tutto è in marcia, secondo le intenzioni del presidente del Consiglio, oggi assente giustificato. A ben vedere, il ministro non ha detto molto. Certo ha definito il referendum del 1987 che pose fine al nucleare in Italia, «scelta scellerata». Si è mai chiesto il ministro dove saremmo con il nucleare in funzione? Per ritornare al motivo di esordio: quante navi di scorie radioattive sarebbero state affondate lungo le coste italiane? Ora il ministro afferma che se ci fosse modo sarebbe ben lieto di averne una centrale sotto casa, nel Ponente ligure. Peccato che il Ponente non abbia spazio, così stetto tra mare e montagna per via della georgrafia «scellerata», per usare la sua parola. «Se no andrei a fare i comizi».
Nei giorni scorsi si sono fatti alcuni nomi di località possibili per eventuali centrali atomiche. L'onorevole Ileana Argentin, candidata alla segreteria regionale del partito democratico per la mozione Marino, ha ripetuto l'elenco di dieci siti, compreso Montalto di Castro e ha chiesto al presidente del Lazio di convocare un consiglio regionale straordinario e votare una «ferma opposizione a questa ipotesi». Scajola assicura che non c'è niente di deciso e gli allarmismi sono fuori luogo. E così il ministro fa affermazioni al tempo stesso preoccupanti e poco veritiere.
Prima di tutto, i tempi sono molto stretti. A fine mese scade il termine delle regioni per intervenire in ordine alla legge nucleare che è di fine luglio. Dopo, è fatta. Le Regioni non si sono ancora fatte sentire su questo punto. Dopo le ferie, il letargo. Le orgnizzazioni ambientaliste hanno l'intenzione di scuotere tale letargo. Inoltre il fatto che non ci sia nulla di deciso corrisponde all'intenzione di mettere le Regioni fuori gioco e inoltre di non perdere voti locali prima del voto di marzo per le regionali.
Ma vi sono altri due aspetti su cui riflettere. Scajola dice: «Stiamo parlando di un gruppo di dodici reattori raggruppabili in tre-quattro centrali». Un luogo con quattro centrali da 1.600 mw, oltre che far venire in mente, con un brivido, Cernobil o la gigantesca centrale nucleare giapponese di Kashiwazaki-Kariwa, spesso chiusa per incendi, fughe di gas, terremoti, ricorda anche Montalto di Castro. Il ministro pensa di installarvi tre o quattro reattori, visto che lo spazio c'è? Infine. Che non vi sia progetto, nel senso di qualcosa di ragionevole e studiato approfonditamente è vero. Qualche volta anche Scajola dice la verità. Ma questo non può che dare più preoccupazioni su quello che fa (o non fa) l'Enel che non sembra avere programmi, idee, tecnici per un'avventura tanto ardua.

MENTRE.....INVECE, ANCHE e NON SOLO!!!
di Andrea Palladino - CETRARO (COSENZA)
LA SCOPERTA
Un fantasma che riemerge dal passato
Erano voci, quasi leggende, o fantasmi, come ha raccontato al manifesto il Procuratore di Paola Bruno Giordano, che da cinque mesi si era messo con ostinazione alla caccia della nave fantasma, della prima nave dei veleni ritrovata. Poi, piano piano, le ombre che i sonar della Copernaut Franca - la nave messa a disposizione dall'assessore all'ambiente Silvestro Greco - hanno preso una forma, divenendo sempre più definite, contornate. I primi dati arrivati sul tavolo della Procura riguardavano le misure, enormi: 110-120 metri di lunghezza per 20 metri di larghezza. Dati che, insieme alla posizione del relitto, confermavano il racconto fatto da Francesco Fonti, il pentito di 'ndrangheta che nel 2006 aveva confessato di aver fatto parte di una organizzazione pagata per far saltare in aria e inabissare ben tre navi con scorie tossiche e radioattive. Poi nel primo pomeriggio di ieri dal ponte della Copernaut Franca è partito il segnale, la comunicazione che il robot Rav aveva filmato un lungo scafo di una nave mercantile, con un largo squarcio a prua e un oggetto - che sembra un bidone - schiacciato sul fianco. Il procuratore Bruno Giordano era quasi emozionato al telefono. Non ama i teoremi e ne fa un vanto investigativo. Tanti anni di Dda e inchieste sui peggiori omicidi di 'ndrangheta hanno rafforzato il suo piglio di giudice con i piedi per terra, concreto, abituato a parlare solo sui fatti incontrovertibili. Ed era quella immagine, quel filmato che aspettava per avere la certezza definitiva di aver colto il bersaglio.
La conferma ufficiale del ritrovamento del relitto riapre la pagina più oscura del traffico di veleni che l'Italia ha esportato, nascosto, interrato e inabissato per almeno un decennio. I tanti depistaggi, le morti di giornalisti, come Ilaria Alpi - che in Somalia inseguiva i fantasmi dei traffici di armi e rifiuti - e di investigatori, come il capitano di corvetta Natale De Grazia - che pagò con una morte mai spiegata la sua ostinata ricerca della verità - non sono alla fine riusciti a nascondere il corpo del delitto, lo scafo di una delle navi dei veleni.
Ora rimane da stabilire con certezza il nome della nave, il carico, l'armatore e chi organizzò quell'ultimo viaggio. Il primo dato certo è che il naufragio non esiste sui registri delle Capitanerie di porto. Per lo stato al largo di Cetraro non è mai affondato alcun vascello mercantile. E come nei migliori gialli gli investigatori dovranno dare ora un nome al cadavere. Il punto di partenza per riaprire e analizzare diciassette anni di fascicoli archiviati è la dichiarazione del pentito Francesco Fonti. Fu lui per primo - ascoltato dalla Dda calabrese nel 2006 - a raccontare di tre navi che la 'ndrangheta ha fatto affondare nelle acque calabresi. Una di queste era «la Cunski, che si spostò in acque internazionali - ricorda Fonti - in corrispondenza di Cetraro». Ovvero nel luogo dove il Rav calato dalla nave Copernaut Franca ha filmato il relitto.
Riscontri nel registro navale
Fino ad oggi il racconto del collaboratore di giustizia era stato ritenuto inaffidabile. Ma gli elementi di riscontro che il manifesto è in oggi in grado di ricostruire sono tanti. La Cunski era una nave da cargo registrata nel 1956, con bandiera britannica. Da allora ha cambiato nome quattro volte: è uscita dai cantieri come Lottinge, nel 1974 diventa Samantha M., nel 1975 Cunski e poco prima di affondare - nel 1991 - viene rinominata Shahinaz.
Sul registro navale la "Lottinge-Samantha-Cunski-Shahinaz" risulta rottamata sulla spiaggia di Alang, in India, nel distretto di Bhavnagar, il 23 gennaio del 1992. Il luogo indicato come destinazione finale è particolare. Alang è un gigantesco cimitero di navi cargo, dove centinaia di uomini, donne e bambini smontano con mezzi di fortuna i relitti portati qui dagli armatori. Impossibile, cioè, avere un riscontro certo dell'avvenuto smantellamento, a parte i supporti solo cartacei.
I dati della Cunski - presenti sul registro navale - sono incredibilmente corrispondenti con il profilo disegnato dal sonar. La lunghezza della nave è di 116,3 metri, misura compatibile con il dato raccolto di 110-120 metri. Ed anche la data della presunta rottamazione - gennaio del 1992 - combacia con il racconto del collaboratore, almeno nel caso della Cunski.
La storia delle navi dei veleni era iniziata ad essere conosciuta - e denunciata - tra il 1987 e il 1988. In quegli anni diverse navi partivano dai porti italiani dirette verso le coste africane e latino-americane. È il caso della Lynx, che venne respinta dal governo venezuelano dopo la verifica del carico. Ed è il caso delle navi affondate nella costa calabrese.
La via libanese
Nel 1988 in Libano le autorità ricevono una denuncia di un enorme carico di rifiuti tossici venuti dall'Italia un anno prima. Fu considerato il principale scandalo ambientale degli anni '80, tanto da servire come stimolo per la definizione della convenzione di Basilea del 1989 che proibisce l'esportazione incontrollata dei rifiuti. Il carico, che era stato organizzato dalla società di Opera, vicino Milano, Jelly Wax, diretta da Giorgio Pent era composto - secondo un report di Greenpeace dell'11 maggio 1995 - da 15.800 barili e 20 container, con pesticidi, esplosivi, solventi, farmaci scaduti e metalli pesanti. La Jelly Wax era una vera esperta in questo tipo di affari ed aveva organizzato nello stesso anno il viaggio della Lynx, facendo da intermediario con decine di industrie chimiche del nord Italia. Un modo per ridurre oltremodo i costi di smaltimento, spedendo carichi pericolosi verso paesi che si pensava li accettassero senza andare per il sottile.
L'operazione libanese del 1988 in realtà non andò in porto. Il governo italiano venne chiamato dalle autorità locali e di fatto costretto a riprendersi il carico indesiderato. Il 23 agosto arriva a Beirut una delegazione di esperti, guidata da Cesarina Ferruzzi - rappresentante all'epoca della società Mont.eco del gruppo Montedison, ed oggi presidente della Anida, associazione di Confindustria delle imprese di servizi ambientali - per organizzare il viaggio di ritorno delle scorie portate in Libano. Dopo pochi giorni attracca nel porto di Beirut «il mercantile jugoslavo Cunski - raccontò ai giornalisti Cesarina Ferruzzi - con a bordo materiali e attrezzature per la bonifica». Fu dunque la Cunski una delle navi coinvolte nel recupero delle scorie.
Nel recupero, però, risultarono coinvolte anche altre navi, secondo gli studi effettuati da Greenpeace: la Jolly Rosso - poi arenatasi al largo di Amantea - e le altre due navi citate dal collaboratore Francesco Fonti, la Voriais Sporadais e la Yvonne.
Le accuse di Greenpeace vennero smentite dal governo italiano nel 1995. Per l'allora ambasciatore italiano Carlo Calia, l'unica nave coinvolta era la Jolly Rosso. Ma sembrano oggi esistere altri indizi che rafforzerebbero l'ipotesi del coinvolgimento delle altre navi. Un documento dell'assemblea generale delle Nazioni unite del 18 luglio 1989 riporta, ad esempio, una denuncia venuta dalle autorità egiziane sull'affondamento della nave "Yvon" nel mediterraneo, dopo aver lasciato il porto libanese con un carico di rifiuti. Lo stesso coinvolgimento della Cunski nell'operazione di bonifica era stato affermato - come già detto - dagli esperti italiani giunti a Beirut nell'agosto del 1988.
Anni di depistaggi
È difficile dunque oggi ricostruire con assoluta certezza quello che è stato un vero e proprio giallo internazionale, che ha coinvolto il nostro paese per un intero decennio. L'Italia venne additata dalle organizzazioni ecologiste - come il Wwf e Greenpeace - come un paese canaglia dal punto di vista ambientale.
L'anno della svolta fu probabilmente il 1989, quando venne firmato l'accordo per bloccare i trasporti internazionali di rifiuti. Probabilmente la via degli affondamenti delle navi nel mediterraneo - per poter occultare le scorie tossiche e radioattive - si aprì dopo questo accordo, che rendeva difficile e rischioso lo sbarco dei rifiuti nei paesi africani. L'organizzazione delle navi a perdere, l'occultamento del carico - magari falsificando le carte di bordo - la manomissione dei registri navali per nascondere gli affondamenti e la fitta attività di disinformazione e di depistaggio dovevano avere necessariamente l'appoggio di una rete di complicità di alto livello.
[fonte: IL MANIFESTO del 13/09/09]

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