Emanuele Giordana
Mentre a sorpresa la televisione birmana stima che le vittime del ciclone Nargis siano ormai oltre 77mila, monta la frustrazione della comunità internazionale verso la quale la giunta continua a opporre il diniego dei visti e l'ingresso di aiuti che non siano direttamente sotto il suo controllo. Una frustrazione che dilaga anche tra gli «umanitari» italiani e che ha fatto dire al ministro degli esteri francese che l'atteggiamento delle giunta confina con il «crimine contro l'umanità», facendo pensare a molti che sia arrivata ll'ora di rispolverare un vecchio concetto di cui fu proprio Kouchner fu uno degli ideatori: l'«ingerenza umanitaria», il diritto cioè di bypassare i governi che ignorano i diritti essenziali dei propri cittadini.
La tardiva ammissione della giunta sul numero delle vittime supera di poco la conta al ribasso che gira da giorni alle Nazioni unite ed è ben al di sotto di quella più elevata, oltre 100mila, di cui si parla con insistenza. E se i generali birmani ammettono 55mila dispersi, le organizzazioni umanitarie fissano il bilancio dei senzatetto e delle persone in stato di grave necessità a due milioni e mezzo. Nondimeno, i generali continuano a restare sordi agli appelli che arrivano da tutto il mondo e dai paesi «amici» (quelli dell'Asean) a cui l'Onu vuole affidare l'ultima carta di una possibile mediazione. Mentre, dicono le scarse corrispondenze dal paese, gli sfollati cominciano a morire di freddo, sono colpiti da epidemie, soffrono la fame e bevono acqua non potabilizzata.
L'unica concessione è l'ammissione di cento medici dai paesi confinanti e una visita che la giunta ha consentito ai diplomatici stranieri nelle zone del delta, ma senza giornalisti e nei luoghi che i militari decideranno. Visita guidata cui non potrà partecipare Louis Michel l'inviato della Ue in Birmania, ripartito per «altri impegni», mentre forse ci andrà un inviato di Ban Ki-moon, l'algido segretario dell'Onu che sulla questione birmana sta tenendo il punto, molto irritato dall'atteggiamento dei militari.
Se la comunità internazionale sembra trovarsi in una sorte di impasse, il dibattito sulle forme dell'«ingerenza umanitaria» cominciano a circolare con insistenza, seppure con toni diversi. Sono della stessa opinione Sergio Marelli, presidente delle ong italiane, e Nino Sergi, di Italia-Aiuta, un comitato che raccoglie fondi per interventi di emergenza. Sergi sostiene che, in casi come questi, l'ingerenza è «obbligatoria e doverosa se è vero che esiste quello che infatti si chiama imperativo umanitario». «Vista l'evoluzione del quadro - argomenta Marelli - non si può non pensare a una pesante e urgente ingerenza perché quelli che sono lesi sono diritti fondamentali». Ma né l'uno né l'altro si spingono a pensare a un intervento che preveda l'uso della forza: «Può complicare le cose e, soprattutto, è un meccanismo - dice Sergi - che non si riesce a dominare». Ne conviene anche Marelli: «La forza è l'ultima ratio e non credo si sia fatto ancora tutto il possibile sul fronte diplomatico». Preferisce invece non commentare Marco Bertotto di Agire, consorzio di ong internazionali che raccoglie fondi per l'emergenza: «In questa fase in cui abbiamo operatori sul campo non tocca a noi prendere una posizione che potrebbe compromettere il lavoro dei nostri sul terreno. E' un compito che spetta alla politica». In questo senso va forse interpretato anche il silenzio di Oxfam che alle nostre domande non ha risposto, limitandosi a ricordare per altro che la strada dei lanci degli aiuti - una possibile ingerenza dal cielo - si sono spesso dimostrati inefficaci e controproducenti.
Dal punto di vista del diritto, Gianni Rufini, docente all'Università di York e all'Ispi di Milano, spiega che i presupposti teorici per l' «ingerenza umanitaria» esistono tutti: la «responsabilità di proteggere» individui in stato di necessità è infatti «una regola sancita in più documenti della comunità internazionale e impone di aiutare i paesi che non hanno le risorse per rispondere alle esigenze primarie dei propri cittadini. Ma quest'obbligo sussiste anche - aggiunge - nel caso di incuria o aperta ostilità verso le vittime». Ribadito dall'assemblea generale dell'Onu nel 2001 ha già dei precedenti: «Come nel caso dell'autorizzazione alle forze dell'Unione africana per agire in Darfur. In quel caso però si trattava di un conflitto, non di una catastrofe naturale. Comunque, dopo quanto accaduto negli anni Novanta dalla Somalia ai Balcani, anche i capi di stato e di governo hanno sancito nel 2005 il principio dell'ingerenza umanitaria». E l'uso della forza? «Teoricamente è possibile ma un intervento armato potrebbe trasformarsi in una guerra e quindi il rimedio potrebbe essere peggiore della causa che lo ha stimolato».
La tardiva ammissione della giunta sul numero delle vittime supera di poco la conta al ribasso che gira da giorni alle Nazioni unite ed è ben al di sotto di quella più elevata, oltre 100mila, di cui si parla con insistenza. E se i generali birmani ammettono 55mila dispersi, le organizzazioni umanitarie fissano il bilancio dei senzatetto e delle persone in stato di grave necessità a due milioni e mezzo. Nondimeno, i generali continuano a restare sordi agli appelli che arrivano da tutto il mondo e dai paesi «amici» (quelli dell'Asean) a cui l'Onu vuole affidare l'ultima carta di una possibile mediazione. Mentre, dicono le scarse corrispondenze dal paese, gli sfollati cominciano a morire di freddo, sono colpiti da epidemie, soffrono la fame e bevono acqua non potabilizzata.
L'unica concessione è l'ammissione di cento medici dai paesi confinanti e una visita che la giunta ha consentito ai diplomatici stranieri nelle zone del delta, ma senza giornalisti e nei luoghi che i militari decideranno. Visita guidata cui non potrà partecipare Louis Michel l'inviato della Ue in Birmania, ripartito per «altri impegni», mentre forse ci andrà un inviato di Ban Ki-moon, l'algido segretario dell'Onu che sulla questione birmana sta tenendo il punto, molto irritato dall'atteggiamento dei militari.
Se la comunità internazionale sembra trovarsi in una sorte di impasse, il dibattito sulle forme dell'«ingerenza umanitaria» cominciano a circolare con insistenza, seppure con toni diversi. Sono della stessa opinione Sergio Marelli, presidente delle ong italiane, e Nino Sergi, di Italia-Aiuta, un comitato che raccoglie fondi per interventi di emergenza. Sergi sostiene che, in casi come questi, l'ingerenza è «obbligatoria e doverosa se è vero che esiste quello che infatti si chiama imperativo umanitario». «Vista l'evoluzione del quadro - argomenta Marelli - non si può non pensare a una pesante e urgente ingerenza perché quelli che sono lesi sono diritti fondamentali». Ma né l'uno né l'altro si spingono a pensare a un intervento che preveda l'uso della forza: «Può complicare le cose e, soprattutto, è un meccanismo - dice Sergi - che non si riesce a dominare». Ne conviene anche Marelli: «La forza è l'ultima ratio e non credo si sia fatto ancora tutto il possibile sul fronte diplomatico». Preferisce invece non commentare Marco Bertotto di Agire, consorzio di ong internazionali che raccoglie fondi per l'emergenza: «In questa fase in cui abbiamo operatori sul campo non tocca a noi prendere una posizione che potrebbe compromettere il lavoro dei nostri sul terreno. E' un compito che spetta alla politica». In questo senso va forse interpretato anche il silenzio di Oxfam che alle nostre domande non ha risposto, limitandosi a ricordare per altro che la strada dei lanci degli aiuti - una possibile ingerenza dal cielo - si sono spesso dimostrati inefficaci e controproducenti.
Dal punto di vista del diritto, Gianni Rufini, docente all'Università di York e all'Ispi di Milano, spiega che i presupposti teorici per l' «ingerenza umanitaria» esistono tutti: la «responsabilità di proteggere» individui in stato di necessità è infatti «una regola sancita in più documenti della comunità internazionale e impone di aiutare i paesi che non hanno le risorse per rispondere alle esigenze primarie dei propri cittadini. Ma quest'obbligo sussiste anche - aggiunge - nel caso di incuria o aperta ostilità verso le vittime». Ribadito dall'assemblea generale dell'Onu nel 2001 ha già dei precedenti: «Come nel caso dell'autorizzazione alle forze dell'Unione africana per agire in Darfur. In quel caso però si trattava di un conflitto, non di una catastrofe naturale. Comunque, dopo quanto accaduto negli anni Novanta dalla Somalia ai Balcani, anche i capi di stato e di governo hanno sancito nel 2005 il principio dell'ingerenza umanitaria». E l'uso della forza? «Teoricamente è possibile ma un intervento armato potrebbe trasformarsi in una guerra e quindi il rimedio potrebbe essere peggiore della causa che lo ha stimolato».
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