Non è vero che nelle campagne del sud dove le mafie prendono a fucilate gli immigrati lo stato è assente. Al contrario, è l'imposizione delle politiche agricole che determina la crisi attuale
La rivolta dei braccianti di questi giorni, continua ad essere inquadrata come un problema d'ordine pubblico dovuto all'assenza dello Stato. Ma questo non corrisponde assolutamente a quello che succede. Lo Stato, anzi gli Stati, ci sono e portano tutta intera la responsabilità. Quella - semplice da comprendere - come la costruzione di un quadro giuridico che finisce per facilitare la totale disarticolazione del mercato del lavoro e la sua facile gestione da parte di gruppi criminali. Ma una responsabilità ben più grave è quella che deriva all'Italia ed all'Unione Europea, dall'aver costruito e rafforzato con denari pubblici un modello agricolo ed agro-alimentare che, pretesamene vocato ad affermarsi sul mercato mondiale e lanciato nella competizione globale con l'illusione della sua concorrenzialità, si ritrova ad un passo dalla sua implosione sotto le mazzate delle diverse crisi che si sono accumulate nel tempo recente e, ancora più gravemente, demolito proprio dal suo interno dalle logiche che lo hanno guidato e lo guidano ancora: l'idea, sbagliata, che aranci, clementine, pomodori, zucchine, latte, pesche o mele potessero essere prodotte «con profitto» in modo industriale da un numero sempre più ristretto di aziende agricole, comunque sempre più dipendenti da fattori esterni, siano essi l'energia, i pesticidi o i concimi a monte o l'industria agroalimentare e la GDO a valle. I prezzi a ritroso, imposti prima di tutto agli impoveriti consumatori dalle grandi catene commerciali e via via fino alle aziende agricole (non necessariamente la catena è lunga, non c'è molta differenza dal prezzo pagato dalla GDO e dall'intermediario grossista del paese), che, producendo con un prezzo imposto, possono tagliare l'unico costo che controllano, quello della forza lavoro. E questo vale se nei campi c'è solo il contadino, suo figlio o sua moglie o il bracciante irregolare.
Ecco l'agricoltura italiana: da 1,6 milioni di occupati nel 1992 a 850.000 nel 2009. Tra il 2000 ed il 2007 abbiamo perso il 22% delle aziende agricole, ma solo poco più de 2% della superficie agricola, infatti è aumentato il numero di tutte le aziende con una superficie maggiore di 30 ettari, cioè chi è restato si è ingrandito «per vincere la concorrenza». Sempre nello stesso periodo il reddito lordo standard (una misura estimativa) delle aziende con una superficie superiore a100 ettari è aumentato del 60%. E questo da anche l'idea perché le varie mafie investono soldi in agricoltura, non solo per riciclare o approfittare dei premi comunitari ma anche perché oltre una certa dimensione comunque - se puoi tagliare i costi di produzione, cioè i costi del lavoro - ci si guadagna bene.
La situazione in Calabria, Puglia ma anche nelle piane del Lazio o nelle stalle della Lombardia o del Veneto si ripropone, con livelli d'abuso diversi ma attraverso gli stessi meccanismi, in Andalusia per le fragole (con il «contratación en origen») o in Francia, nelle Bouche du Rhone ( i contratti «OMI»). Meccanismi simili perché simile è il modello agricolo: un'agricoltura industriale risultato di mezzo secolo di politiche pubbliche. Politiche imposte oggi alla Romania, paese membro dell'Unione Europea dove un'agricoltura familiare di piccolissima scala, che è riuscita ad attraversare l'era Ceausescu viene quasi annientata dall'applicazione della PAC provocando l'esodo dalle campagne verso le serre spagnole o di Latina (Mircea Vasilescu, 2006). Politiche imposte ai paesi africani dove l'Unione Europea stessa dice: «Occorre liberalizzare i mercati agricoli sulla base di una liberalizzazione reciproca» (UE, 2007) ma poi mette tutti sull'avviso che ad esempio «L'avvenire delle esportazioni nordafricane di prodotti agricoli è compromesso...». Infatti aumentano le importazioni alimentari dei paesi africani. Quelle dell'Africa francofona in 10 anni sono aumentate di oltre l' 80% ma la quota dell'Africa negli scambi mondiali in venti anni è scesa dal 2% al 1,6% del totale. E giusto per avere un'idea di come funziona: il latte importato costa intorno ai 200 FCFA in Senegal, ma il costo di produzione locale di un litro di latte non scende mai sotto i 400 FCFA. Certo che anche in questi paesi le elite dominanti approfittano della liberalizzazione, ad esempio in Tunisia il 2% delle aziende agricole controlla più del 60% delle terre coltivate e fertili. In Marocco in 20 anni il numero totale delle aziende agricole è diminuito del 22% ma nello stesso periodo il numero delle grandi aziende è aumentato del 10% circa. E la Banca Mondiale stessa, all'origine dei duri processi di liberalizzazione e industrializzazione delle agricolture , deve riconoscere «L'agricoltura contadina, di autoconsumo ed approvvigionamento del commercio di prossimità saranno toccati duramente della rottura del tessuto sociale e delle attività economiche degli spazi rurali dove loro completano sia il reddito necessario alla famiglia che i ciclo produttivo...» (Banque Mondiale, 2002). Saranno questi deportati economici a finire nei campi di pomodori e clementine, nelle serre dove si coltivano fragole ed insalata senza terra, con le flebo di chimica.
In questi paesi le politiche pubbliche imposte nell'ultimo quarto di secolo hanno prodotto il crescente processo di privatizzazione della terra e la difficoltà di mantenerne il controllo da parte dei piccoli contadini, la predazione delle risorse naturali fondamentali per l'agricoltura (acqua, foreste, fertilità, biodiversità,), taglio egli investimenti pubblici per l'agricoltura familiare e smantellamento delle protezioni del mercato interno agroalimentare, riduzione delle rese e della produzione agricole, distruzione dell'economia rurale con esodo e rottura del tessuto sociale del paese stesso, conquista del mercato interno alimentare da parte della GDO multinazionale ed il conseguente crollo dei redditi familiari rurali. Quindi siamo di fronte ad un problema globale e nazionale di politica agricola ed alimentare di cui gli Stati portano tutta intera la responsabilità. Da parte loro le organizzazioni agricole, come il Cordinamento Europeo della Via Campesina (CEVC), chiedono che la «Unione europea garantisca il rispetto da parte degli Stati delle condizioni di lavoro della manodopera agricola, in particolare stagionale, anche negando agli Stati che non rispettano gli obblighi minimi in materia di lavoro salariato stagionale agricolo i fondi di supporto all'agricoltura».
La mobilitazione e la solidarietà continua. Prossimo appuntamento del Coordinamento Europeo della Via Campesina a Torino dal 29 al 31 gennaio, un incontro di lavoro, facilitato da Associazione Rurale Italiana, per licenziare la piattaforma europea sul lavoro schiavo in agricoltura.
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