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06/02/10

APPELLO degli Immigrati di Rosarno

di Immigrati di Rosarno a Roma
APPELLO
Le nostre richieste al governo
In data 31 gennaio 2010 ci siamo riuniti per costituire l'assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma. Siamo i lavoratori che sono stati obbligati a lasciare Rosarno dopo aver rivendicato i nostri diritti. (...) Vivevamo in fabbriche abbandonate, senza acqua né elettricità. Il nostro lavoro era sottopagato. Lasciavamo i luoghi dove dormivamo ogni mattina alle 6 per rientrarci solo la sera alle 20 per 25 euro che non finivano nemmeno tutti nelle nostre tasche. A volte non riuscivamo nemmeno, dopo una giornata di duro lavoro, a farci pagare. Ritornavamo con le mani vuote e il corpo piegato dalla fatica.
Eravamo bastonati, minacciati, braccati come le bestie... prelevati, qualcuno è sparito per sempre. Ci hanno sparato addosso, per gioco o per l'interesse di qualcuno. (...) Non ne potevamo più. Coloro che non erano feriti da proiettili, erano feriti nella loro dignità umana, nel loro orgoglio di esseri umani. Non potevamo più attendere un aiuto che non sarebbe mai arrivato perché siamo invisibili, non esistiamo per le autorità di questo paese. (...).
Domandiamo alle autorità di questo paese di incontrarci e di ascoltare le nostre richieste:
• domandiamo che il permesso di soggiorno concesso per motivi umanitari agli 11 africani feriti a Rosarno, sia accordato anche a tutti noi, vittime dello sfruttamento e della nostra condizione irregolare che ci ha lasciato senza lavoro, abbandonati e dimenticati per strada.
• Vogliamo che il governo di questo paese si assuma le sue responsabilità e ci garantisca la possibilità di lavorare con dignità.

28/01/10

Lavoro SCHIAVO - di Antonio Onorati

Non è vero che nelle campagne del sud dove le mafie prendono a fucilate gli immigrati lo stato è assente. Al contrario, è l'imposizione delle politiche agricole che determina la crisi attuale
La rivolta dei braccianti di questi giorni, continua ad essere inquadrata come un problema d'ordine pubblico dovuto all'assenza dello Stato. Ma questo non corrisponde assolutamente a quello che succede. Lo Stato, anzi gli Stati, ci sono e portano tutta intera la responsabilità. Quella - semplice da comprendere - come la costruzione di un quadro giuridico che finisce per facilitare la totale disarticolazione del mercato del lavoro e la sua facile gestione da parte di gruppi criminali. Ma una responsabilità ben più grave è quella che deriva all'Italia ed all'Unione Europea, dall'aver costruito e rafforzato con denari pubblici un modello agricolo ed agro-alimentare che, pretesamene vocato ad affermarsi sul mercato mondiale e lanciato nella competizione globale con l'illusione della sua concorrenzialità, si ritrova ad un passo dalla sua implosione sotto le mazzate delle diverse crisi che si sono accumulate nel tempo recente e, ancora più gravemente, demolito proprio dal suo interno dalle logiche che lo hanno guidato e lo guidano ancora: l'idea, sbagliata, che aranci, clementine, pomodori, zucchine, latte, pesche o mele potessero essere prodotte «con profitto» in modo industriale da un numero sempre più ristretto di aziende agricole, comunque sempre più dipendenti da fattori esterni, siano essi l'energia, i pesticidi o i concimi a monte o l'industria agroalimentare e la GDO a valle. I prezzi a ritroso, imposti prima di tutto agli impoveriti consumatori dalle grandi catene commerciali e via via fino alle aziende agricole (non necessariamente la catena è lunga, non c'è molta differenza dal prezzo pagato dalla GDO e dall'intermediario grossista del paese), che, producendo con un prezzo imposto, possono tagliare l'unico costo che controllano, quello della forza lavoro. E questo vale se nei campi c'è solo il contadino, suo figlio o sua moglie o il bracciante irregolare.
Ecco l'agricoltura italiana: da 1,6 milioni di occupati nel 1992 a 850.000 nel 2009. Tra il 2000 ed il 2007 abbiamo perso il 22% delle aziende agricole, ma solo poco più de 2% della superficie agricola, infatti è aumentato il numero di tutte le aziende con una superficie maggiore di 30 ettari, cioè chi è restato si è ingrandito «per vincere la concorrenza». Sempre nello stesso periodo il reddito lordo standard (una misura estimativa) delle aziende con una superficie superiore a100 ettari è aumentato del 60%. E questo da anche l'idea perché le varie mafie investono soldi in agricoltura, non solo per riciclare o approfittare dei premi comunitari ma anche perché oltre una certa dimensione comunque - se puoi tagliare i costi di produzione, cioè i costi del lavoro - ci si guadagna bene.
La situazione in Calabria, Puglia ma anche nelle piane del Lazio o nelle stalle della Lombardia o del Veneto si ripropone, con livelli d'abuso diversi ma attraverso gli stessi meccanismi, in Andalusia per le fragole (con il «contratación en origen») o in Francia, nelle Bouche du Rhone ( i contratti «OMI»). Meccanismi simili perché simile è il modello agricolo: un'agricoltura industriale risultato di mezzo secolo di politiche pubbliche. Politiche imposte oggi alla Romania, paese membro dell'Unione Europea dove un'agricoltura familiare di piccolissima scala, che è riuscita ad attraversare l'era Ceausescu viene quasi annientata dall'applicazione della PAC provocando l'esodo dalle campagne verso le serre spagnole o di Latina (Mircea Vasilescu, 2006). Politiche imposte ai paesi africani dove l'Unione Europea stessa dice: «Occorre liberalizzare i mercati agricoli sulla base di una liberalizzazione reciproca» (UE, 2007) ma poi mette tutti sull'avviso che ad esempio «L'avvenire delle esportazioni nordafricane di prodotti agricoli è compromesso...». Infatti aumentano le importazioni alimentari dei paesi africani. Quelle dell'Africa francofona in 10 anni sono aumentate di oltre l' 80% ma la quota dell'Africa negli scambi mondiali in venti anni è scesa dal 2% al 1,6% del totale. E giusto per avere un'idea di come funziona: il latte importato costa intorno ai 200 FCFA in Senegal, ma il costo di produzione locale di un litro di latte non scende mai sotto i 400 FCFA. Certo che anche in questi paesi le elite dominanti approfittano della liberalizzazione, ad esempio in Tunisia il 2% delle aziende agricole controlla più del 60% delle terre coltivate e fertili. In Marocco in 20 anni il numero totale delle aziende agricole è diminuito del 22% ma nello stesso periodo il numero delle grandi aziende è aumentato del 10% circa. E la Banca Mondiale stessa, all'origine dei duri processi di liberalizzazione e industrializzazione delle agricolture , deve riconoscere «L'agricoltura contadina, di autoconsumo ed approvvigionamento del commercio di prossimità saranno toccati duramente della rottura del tessuto sociale e delle attività economiche degli spazi rurali dove loro completano sia il reddito necessario alla famiglia che i ciclo produttivo...» (Banque Mondiale, 2002). Saranno questi deportati economici a finire nei campi di pomodori e clementine, nelle serre dove si coltivano fragole ed insalata senza terra, con le flebo di chimica.
In questi paesi le politiche pubbliche imposte nell'ultimo quarto di secolo hanno prodotto il crescente processo di privatizzazione della terra e la difficoltà di mantenerne il controllo da parte dei piccoli contadini, la predazione delle risorse naturali fondamentali per l'agricoltura (acqua, foreste, fertilità, biodiversità,), taglio egli investimenti pubblici per l'agricoltura familiare e smantellamento delle protezioni del mercato interno agroalimentare, riduzione delle rese e della produzione agricole, distruzione dell'economia rurale con esodo e rottura del tessuto sociale del paese stesso, conquista del mercato interno alimentare da parte della GDO multinazionale ed il conseguente crollo dei redditi familiari rurali. Quindi siamo di fronte ad un problema globale e nazionale di politica agricola ed alimentare di cui gli Stati portano tutta intera la responsabilità. Da parte loro le organizzazioni agricole, come il Cordinamento Europeo della Via Campesina (CEVC), chiedono che la «Unione europea garantisca il rispetto da parte degli Stati delle condizioni di lavoro della manodopera agricola, in particolare stagionale, anche negando agli Stati che non rispettano gli obblighi minimi in materia di lavoro salariato stagionale agricolo i fondi di supporto all'agricoltura».

La mobilitazione e la solidarietà continua. Prossimo appuntamento del Coordinamento Europeo della Via Campesina a Torino dal 29 al 31 gennaio, un incontro di lavoro, facilitato da Associazione Rurale Italiana, per licenziare la piattaforma europea sul lavoro schiavo in agricoltura.

23/06/09

SABATO 27 GIUGNO 2009 MANIFESTAZIONE REGIONALE A UDINE PER DIRE

Ø NO ad un welfare regionale che discrimini minori, studenti e famiglie in base alla loro provenienza
Ø NO ai contenuti demagogici del DdL Sicurezza
Ø NO a razzismo, xenofobia e discriminazioni
Ø SI' ad un welfare che promuova l’integrazione e la coesione sociale, i diritti alla protezione dell’infanzia, il diritto allo studio e al sostegno alle famiglie, che sono diritti di tutti
Ø SI' ad ogni diritto di cittadinanza
Ø SI' ad un’Italia che rispetti il diritto d’asilo
Ø SI' ad una Regione e ad un Italia in cui la sicurezza sia un bene per tutti e si garantisca con la crescita culturale di ciascuna e ciascuno.

PARTECIPA
SABATO 27 giugno 2009 – UDINE
ore 16.00 ritrovo in Piazza San Giacomo;
ore 16.45 corteo attraverso il centro fino a Piazzale Venerio, con interventi di migranti, associazioni, sindacati e del Sindaco di Udine


Iniziativa promossa dalla Rete Diritti di Cittadinanza FVG, Centro Balducci, CGIL, ACLI, RdB-CUB, Associazione Immigrati di Pordenone, Donne in Nero-Ud, Associazioni “La Tela” e “Officina del Mondo”-Ud

Prime adesioni: ALEF FVG, ANPI prov. Ud, ARCI prov. Ud, ASEF FVG, ASGI FVG, Associazioni “Bhairab” e “Bimas”-Monfalcone, Associazione Ce.Si.-Ud, Associazion Culturâl "el tomât" di BUJE, Associazione dei Serbi Nicola Tesla FVG, Associazione “ICARO”, Associazione “PSII” – Ud, Associazione “Mediatori di Comunità”, Associazione Tricolorul di Romania, Associazione UNITA' ex URSS, Associazione “Vicini di casa”, Bande Garbe, CACIT - TS, Casa Internazionale delle Donne di Trieste, CIAM, Circolo Mediatori Culturali-Linguistici dell’Acli, Cobas Scuola, Comitato “Noi non segnaliamo” PN, Comitato per i diritti civili delle prostitute, Comunità “Arcobaleno” - GO, Conferenza Volontariato Giustizia del FVG, GR.I.S. FVG – SIMM, ICS – TS, Nigerian Association FVG, Radio Onde Furlane, UIL – FVG, Partito della Rifondazione Comunista FVG, Partito Democratico FVG, Partito Umanista FVG, Sinistra e Libertà FVG, Associazione Culturale PropitQmò


17/06/09

800-99-99-77 Un telefono che sventa il razzismo quotidiano

di Cinzia Gubbini - ROMA
SICUREZZA - L'iniziativa «Sos diritti» dell'Arci
Un telefono che sventa il razzismo quotidiano
«All'inizio ci hanno chiamato soprattutto persone che ci chiedevano: ma mi devo sposare?». Le preoccupazioni che agitano la società italiana di fronte all'approvazione del pacchetto sicurezza a volte sono difficilmente registrabili. Poi qualcuno, per esempio i ragazzi dell'Arci, pensa che si possa mettere a disposizione un numero telefonico. Nasce così - era febbraio - il numero «S.o.s diritti», una «linea amica» per chi vuole segnalare discriminazioni e atti di razzismo. E si scopre che del pacchetto sicurezza non fanno paura soltanto i medici o i presidi «spia» (anche quelli). Ma soprattutto il divieto di sposarsi con un immigrato senza permesso di soggiorno. Indicatore più che eloquente di quanto la società sia più avanti della politica: l'amore scocca con o senza documenti. «Ne sono arrivate davvero decine di telefonate così. E noi cosa possiamo rispondere? Che se l'evento era già programmato o se almeno si pensa di essere davvero convinti, beh sì..conviene sposarsi subito». Valentina Itri è la coordinatrice del centralino anti-razzismo. Così è stato ribattezzato il numero 800-99-99-77 a cui rispondono tutti i giorni dal lunedì al venerdì, dalle 9,30 alle 18,30, operatori qualificati. L'iniziativa dell'Arci è nata in concomitanza con la campagna «Apriti agli altri-Non avere paura», che proprio ieri ha visto una raccolta straordinaria di firme a largo Argentina a Roma - presenti il presidente della regione Lazio Marrazzo, quello della provincia Zingaretti e del vicesindaco Cutrufo che rappresentava Alemanno - promossa da associazioni e sindacati. Ma l'iniziazione per il centralino arriva con un fatto concretissimo e soprattutto molto serio: un ragazzo senegalese che viene aggredito in pieno giorno nel mercato di via Sannio. Senza che nessuno muova un dito. Su un giornale legge che esiste questo servizio. E decide di rivolgersi al centralino. Per gli operatori è il battesimo del fuoco: lo incontrano, gli presentano un avvocato, lo assistono e lo confortano nella sua decisione di sporgere denuncia.
E' questa la funzione del centralino. Valentina, Nat, Rosaria e Elvis sono in grado di mettersi immediatamente in contatto con 16 interpreti e con gli avvocati, attraverso telefonate «in conferenza».
Di chiamate fino a oggi ne sono arrivate circa 500. Raccontano un'Italia pericolosa, e un razzismo che si annida dove meno te lo aspetti. Una dottoressa moldava, laureata in Italia, ha dovuto ricorrere al servizio «S.o.s. diritti» per ottenere l'iscrizione all'Ordine dei medici di Vicenza. Gli operatori si sono attaccati al telefono, chiamando a rotazione l'Ordine, il ministero della salute, gli avvocati, inviando e-mail con tutti i riferimenti giuridici che attestavano il diritto della dottoressa ad accedere all'albo. Solo dopo molte insistenze è stata iscritta. Poi c'è la storia di un uomo ruandese, sposato con una donna italiana, che lavorava all'Inps. I colleghi avevano preso l'abitudine di fargli trovare attaccato sul monitor del computer i titoli dei giornali in cui si parlava degli ultimi sbarchi a Lampedusa. Lui ha chiamato il centralino per denunciare la cosa. «Era veramente demoralizzato, offeso, incredulo», racconta Nat. I ragazzi del centralino hanno cercato di incoraggiarlo a fare delle foto per arrivare a una denuncia formale. Ma lui ha preso un'altra strada: se ne è andato. Si è trasferito in Belgio, con la moglie e le due figlie. «Lì - ha detto - le coppie miste sono più normali». Oppure c'è il caso della donna rumena vestita con un abito tradizionale per una festa, che il 10 febbraio a Roma è stata fatta scendere a forza dall'autobus 23. Nessuno ha fatto niente per difenderla.
Episodi di discriminazione che non risparmiano le sedi istituzionali. Arrivano telefonate da tutta Italia per denunciare che i Comuni si rifiutano di concedere la residenza anagrafica. Una cosa illegale. «Noi inviamo tutti i riferimenti giuridici - dice Valentina - e poi telefoniamo agli uffici. Quasi sempre riusciamo a farli iscrivere». Decine sono le chiamate delle persone rinchiuse nei centri di permanenza «e che denunciano condizioni di sovraffollamento e maltrattamenti», racconta Valentina. Voci che nessuno vuole ascoltare. Ma ora basta alzare il telefono.

11/04/09

CANTI MIGRANTI

Giunse un torpedone sgangherato che fermò rumorosamente fischiando, come fosse una nave. Nel silenzio del porto il rumore riverberò fin sul mare piatto e chiotto di mistero. Ne discesero un numeroso gruppo di straccioni (così parvero ai pochi presenti), che estrassero dalle fiancate i bagagli. Finita l’operazione la corriera si allontanò e l’ammasso grigio di anime ristette in attesa muta e assorta.

Non passarono due minuti che un altro torpedone scaricò una varietà di grigio più scura ancora, una macchia da potersi definire nera. Questi altri senz’altro più rumorosi, comunque contenuti. Terminata l’attività di scarico, anch’essi sostarono in silenzio.

I rumori stridenti e frammentari del porto echeggiavano come discosti, remoti, con rifrazioni che andavano a frangersi sull’orizzonte minaccioso di nubi e rari guizzi di luci palesanti l’alba.

I due gruppi di migranti si fronteggiavano senza interesse, scrutandosi indolenti e sonnacchiosi in attesa degli imbarchi. Qualcuno sedette sulle valigie, altri iniziarono a conversare e i bambini giocarono a rincorrersi inseguiti dagli sguardi attenti e indulgenti degli adulti. Poche le parole, solo il tacere dell’attesa.

Come per magia dal primo gruppo si levò un canto incomprensibile agli altri. Cominciò un uomo alto che, alzando una mano, invitò gli altri a seguirlo. Parole lente, dal vago significato di preghiera, parole che non ebbero bisogno di traduzione tanto erano intuibili:

“Se tu vens cà sù ta' cretis,
là che lôr mi àn soterât,
al è un splàz plen di stelutis:
dal miò sanc 'l è stât bagnât…”

Cantarono composti e fermi con gli occhi bassi che rialzarono solo alla fine incontrando gli sguardi sorridenti degli altri.

Breve fu il silenzio, finché un altro canto si levò dal secondo gruppo, e anche questo parve a tutti una preghiera, forse ancora più intensa della prima, forse triste, ma che l’impegno e lo slancio del coro resero quasi festoso:

“Vitti ‘na crozza supra ‘nu cannuni,
fui curiusu e ci vozi spiari,
idda m’arrispunniu cu gran duluri,
muriri senza toccu di campani…”

Alla fine ci fu anche un battimani che coinvolse tutti e qualcuno aprì incomprensibili dissertazioni sulla musica dall’una e dall’altra parte.

Poi una giovane donna dall’aria timida e severa attraversò la banchina e senza parole offrì una piccola cesta di limoni ad una vecchia che per accettarla volle il conforto dei compagni. Allora un giovane aprì la valigia e ne estrasse una bottiglia di vino che andò a consegnare.

“Questo vino buono, fatto in casa… in casa, fatto dalla mia famiglia.”

Non seppe se avevano inteso, comunque le mani accolsero il dono e strinsero quelle del giovane. Ci fu un via vai di doni breve e laconico, quasi fossero tutti complici di una stentata rivoluzione culturale.

Un bambino sollevò lo sguardo al genitore:

“Pai, in ce lenghe cjàntino?”

L’uomo sorrise incerto.

“No’ ài capît. ‘O crôt che a’ son taliàns…”
“Taliàns? E parcè no ài capît nùje?”
“E tu? Tu as cjantât par talian? E lôr an capît lis tôs peràules?”

Il piccolo considerò quanto detto dal padre, ma non ne fu soddisfatto, comunque riosservò il gruppo e valutò quanto fossero brutti, come fossero vestiti male e avessero qualcosa di inquietante nei volti… al bambino parvero facce di galera, soprattutto i maschi, con le barbe non rasate e quei coltelli che estraevano per tagliare il pane. Le femmine invece erano solo più… scure (e qualcuna aveva anche la barba) e i bambini più chiassosi. Ma simpatici. Tanto che avrebbe voluto giocarci insieme, ma qualcosa glielo impedì. Sentì che non erano come lui, che forse avrebbe avuto difficoltà a… No, non seppe rispondersi, ma capì che in loro qualcosa non andava.

“Pai, a’ son bruts e plui sporcs di nô.”

L’uomo scrutò con più attenzione la massa umana di fronte.

“No pizzul, a’ son dome pùars.”

Il bambino sorrise e come rivolto al mare si dichiarò felice di non appartenere a quella gente.

“Pai, ‘o sin fortunâs.”

Anche l’uomo sorrise e gli accarezzò il capo.

Dedicato agli intolleranti e ai supponenti...

Rocco Burtone

29/01/09

Divieto di segnalazione - siamo medici e infermieri, non siamo spie

MSF, ASGI, SIMM e OISG lanciano un appello alla società civile per chiedere ai Senatori di respingere l’emendamento che elimina il principio di non segnalazione alle autorità per gli immigrati irregolari che si rivolgono a una struttura sanitaria.

28/01/2009

FIACCOLATA DAVANTI A MONTECITORIO

2 FEBBRAIO DALLE 17.30 alle 20.00

Roma, 28 gennaio 2009 – Il 3 febbraio prossimo il Senato voterà un emendamento volto a sopprimere il principio di “non segnalazione” alle autorità per il migrante irregolare che si rivolge ad una struttura sanitaria. Medici Senza Frontiere (MSF), Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (OISG) hanno lanciato oggi un appello alla società civile per chiedere ai Senatori di non abrogare il suddetto principio.

MSF, SIMM, ASGI e OISG hanno inoltre annunciato una fiaccolata della società civile il 2 febbraio davanti a Montecitorio (tra Piazza della Colonna Antonina e l’obelisco) dalle 17.30 alle 20.00 al quale sono invitati a partecipare operatori sanitari, organizzazioni non governative, rappresentanti della società civile e cittadini.

Per aderire all'appello: http://www.divietodisegnalazione.medicisenzafrontiere.it >>

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13/01/08

DICHIARAZIONI DEL MINISTRO AUSTRALIANO PETER COSTELLO sui problemi della immigrazione.


post by marywan domenica 13 gennaio 2008

Interessante la chiarezza senza i "distinguo" fumosi tipica dei nostri politici, ma anche senza i toni beceri di qualche altro.


DICHIARAZIONI DEL MINISTRO AUSTRALIANO PETER COSTELLO sui problemi della immigrazione.

“QUESTO E’ CIO’ CHE DEVONO FARE TUTTI I PAESI”

Non sono contrario all’immigrazione, e non ho niente contro coloro
che cercano una vita migliore venendo in Australia.

Tuttavia ci sono questioni che coloro che recentemente sono
arrivati nel nostro paese, ed a quanto sembra anche qualcuno dei nostri concittadini nati qui, devono capire.
L’idea che l’Australia deve essere una comunità multiculturale è
servita soltanto a dissolvere la nostra sovranità ed il sentimento di identità nazionale.
Come australiani, abbiamo la nostra cultura, la
nostra società, la nostra lingua ed il nostro modo di vivere.
Questa cultura è nata e cresciuta durante più di due secoli di lotte,
processi e vittorie da parte dei milioni di uomini e donne che hanno cercato la libertà di questo paese. Noi parliamo l’inglese, non il libanese, l’arabo, il cinese, il giapponese, il russo o qualsiasi altra lingua.

Perciò, se desiderate far parte della nostra società, imparatela lingua!

La maggioranza degli australiani crede in Dio. Non si tratta soltanto di un affare privato di qualche cristiano fondamentalista di destra, ma vi è un dato di fatto certo ed incontrovertibile: uomini e donne cristiani hanno fondato questa nazione su principi cristiani, e questo è chiaramente documentato nella nostra storia. Questo dovrebbe essere scritto sui muri delle nostre scuole. Se il nostro Dio vi offende, allora vi consiglio di prendere in considerazione la decisione di scegliere un’altra parte del mondo per mettere su casa, perché Dio è parte della nostra cultura. Accetteremo le vostre opinioni religiose, e non vi faremo domande, però daremo per scontato che anche voi accettate le nostre e cercherete di vivere in pace ed armonia con noi.

Se la Croce vi offende, o vi molesta, o non vi piace, allora dovrete pensare seriamente di andarvene da qualche altra parte.

Siamo orgogliosi della nostra cultura e non pensiamo minimamente di cambiarla, ed i problemi del vostro paese di origine non devono essere trasferiti sul nostro.
Cercate di capire che potete praticare la vostra cultura, ma non
dovete assolutamente obbligare gli altri a farlo.
Questo è il nostro paese, la nostra terra, il nostro modo di vivere, e
vi offriamo la possibilità di viverci al meglio.

Ma se voi cominciate a lamentarvi, a piagnucolare, e non accettate
la nostra bandiera, il nostro giuramento, i nostri impegni, le nostre credenze cristiane, o il nostro modo di vivere, vi dico con la massima franchezza che potete far uso di questa nostra grande libertà di cui godiamo in Australia:

Il diritto di andarvene. Se non siete felici qui, allora andatevene. Nessuno vi ha obbligato a venire nel nostro paese. Voi avete chiesto di vivere qui: ed allora accettate il paese che avete scelto. Se non lo fate, andatevene! Vi abbiamo accolto ed aperto le porte del nostro paese; se non volete essere cittadini come tutti in questo paese, allora tornate al paese da cui siete partiti!

Questo è il dovere di ogni nazione,
questo è il dovere di ogni immigrante.