Se non ci sono i giornalisti che scoprono gli operai sui tetti e i giudici che scoprono i reati, anche un delinquente può governare e il governo può raccontare la sua Italia immaginaria
In una democrazia normale, all’approssimarsi delle elezioni, si istituirebbero alla TV apposite trasmissioni di approfondimento e di dibattito politico. Così si faceva nel regime democristiano, nel quale furono istituite le “Tribune elettorali”, che ebbero grande successo. La mia piccola fama cominciò quando, giovane giornalista, feci a Togliatti una domanda a cui non seppe rispondere. C’era anche un giornalista socialdemocratico, che si chiamava Mangione, che era così aggressivo e sguaiato, che poteva prefigurare Ghedini.
Nell’Italia di oggi, invece, all’approssimarsi delle elezioni le trasmissioni di approfondimento e di dibattito politico si tolgono. Intanto si tolgono quelle, poi, se non stiamo attenti, si toglieranno anche le elezioni.
La motivazione ufficiale di questo digiuno politico-televisivo (del resto siamo in Quaresima) è che tali trasmissioni violerebbero la “par condicio”, cioè il fatto che tutti possano dire tutto. Ma le nostre trasmissioni di approfondimento politico, da Vespa a Santoro a Floris, sono ammalate proprio di par condicio; sulla base dell’ideologia secondo la quale tutte le idee sono eguali, e che a vincere debba essere il più scaltro e il più forte, i nostri “talk-show”, cioè i dibattiti spettacolarizzati, sono una zuffa senza esclusione di parole (e anche di occhiatacce e di smorfie di reciproco disgusto) dove tutto si può fare tranne che offrire una varietà di opinioni rispettabili ad edificazione e informazione dei telespettatori. Si tratta, peggiorata, dell’ideologia delle tavole rotonde, dove non si fa cultura, perché non c’è cultura dove non c’è né capo né coda, ma è assemblato un assortimento di prodotti, come negli scaffali dei supermercati, quando non c’è nessuna seria ragione per scegliere, a partire dalle etichette, un prodotto invece che un altro. Al contrario, nelle trasmissioni o nei discorsi considerati di parte, dove si segue un orientamento dichiarato, dove si offre un’argomentazione e si segue un filo, non ci sarà il battibecco paritario, ma almeno l’encefalogramma non è piatto.
Dunque non è perché non rispetterebbero la par condicio che le trasmissioni censurate non possono andare in onda. La ragione è esattamente l’inversa; Berlusconi ha sempre detto che un partito grosso e un partito piccolo non dovrebbero avere spazi uguali, ma differenziati secondo la rispettiva forza, in modo che i grossi diventino sempre più grossi e i piccoli sempre più piccoli, fino a scomparire. E quanto ad apprezzare la parità, non se ne parla nemmeno, dato che egli si è definito come un “primus super pares”: i pari sono gli altri, lui è il primo e sta sopra tutti: la parola sovrano – superanus – viene da lì, significa che sta sopra e non c’è nessun altro al di sopra di lui. Perciò è sciolto da ogni vincolo: assoluto.
Ma il togliere la politica dalle chiacchiere televisive (come nel fascismo la politica era interdetta nelle chiacchiere da bar) non è solo un atto di ordinaria censura: un furto di informazione, come dicono tutti quelli che protestano. È, ancora di più, la rivelazione del vero tarlo, della vera ossessione del presente regime: il rifiuto del controllo. In questo senso la stampa è esattamente come la magistratura; Berlusconi nega il potere di controllo dei magistrati, esattamente come nega il potere di controllo della stampa; e la ragione è molto semplice; se non ci sono i giudici che “dicono la giustizia” (giurisdizione) e nominano i reati con le inchieste, i processi e le sentenze, questi non esistono, e anche i fuorilegge possono governare; e se non ci sono i giornalisti che scoprono gli operai sui tetti, gli aquilani con le carriole e la spazzatura nel mar Tirreno, allora l’Italia non c’è, e il governo può raccontare un’altra Italia, la sua: un’Italia dove non c’è la crisi economica, non ci sono i licenziamenti, i terremotati sono contenti con le loro finte casette e non sono esuli da una città che Bertolaso non ha visto e che resterà distrutta, e la spazzatura è gloria del governo averla tolta di mezzo per sempre. E nemmeno si verrà a sapere che se la destra non presenta come si deve le liste, facendo cadere i propri stessi candidati, non è per un complotto dei nemici, ma perché in un finto partito unico la lotta tra gli “amici” è spietata.
Questo è il significato della crociata berlusconiana contro tutti i poteri di controllo, la magistratura, il Parlamento, la Corte Costituzionale, il Presidente della Repubblica, la stampa, la televisione non sua, tutti faziosi, tutti comunisti: non solo dominare la realtà col potere, ma negare la realtà per fondare e preservare il potere.
Raniero La Valle ha diretto, a soli 30 anni, L’Avvenire d’Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967) quando inizia la normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro. La Valle gira il mondo per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia, America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia Villas (“Marianela e i suoi fratelli”), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia sociale. Nel 1976 La Valle entra in parlamento con Sinistra Indipendente; si occupa della riforma della legge sull’obiezione di coscienza. Altri libri “Dalla parte di Abele”, “Pacem in Terris, l’enciclica della liberazione”, “Prima che l’anno finisca”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”. Nel 2008 ha pubblicato “Se questo è un Dio”. Nel 2008 è stato promotore del “Manifesto per la sinistra cristiana” nel quale propone il rilancio della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del ’48 e la critica della democrazia maggioritaria.
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