14/07/09

Polvere DI MONFALCONE - vedova all'amianto

di Angelo Ferracuti - MONFALCONE (TRIESTE)

Ritorno di uno scrittore nei luoghi dove l'asbestosi continua a mietere vittime. I picchi più alti di mortalità previsti nel 2020. Alla vigilia dell'apertura del maxiprocesso contro la Fincantieri per la morte di 39 operai
A Monfalcone è meglio arrivare dall'interno, passando per Aquleia, antica città magica e porto romano. Arrivando dall'autostrada conviene uscire a Palmanova e inoltrarsi per questa lingua d'asfalto che come una forbice affilata taglia in due un territorio ricco di faggete rigogliose e campi. Quello che ti colpisce arrivato all'asburgica Grado è il colore del cielo, che sembra blu cobalto e l'acqua che ti accoglie è dello stesso colore, così tutto diventa più largo, lucente e ventoso, e superato il ponte sull'Isonzo sembra di essere già in un altro territorio. Da queste parti arrivai la seconda volta cinque anni fa, qui iniziò il mio viaggio nell'Italia del lavoro, che finì nel libro Le risorse umane, due anni a caccia di storie dal nord al sud di questo paese che arretra, omogeneo solo per nuovo sfruttamento e nuove schiavitù, e sempre qui sono tornato più volte perché amo questi luoghi, e soprattutto la gente che ci abita, schiva e allo stesso tempo rocciosa come il Carso, criniera di collina montagnosa a pochi passi dal mare e a un tiro di schioppo da Nuova Gorica. Ma la prima volta fu ancora precedente, invitato a scrivere un reportage in loco da Mauro Covacich. Ero attratto dai luoghi e le memorie della prima grande guerra, e per due giorni ostinato camminai su questi sentieri a caccia di trincee, lapidi che spuntavano come funghi dalla terra pietrosa e croci di ferro arrugginite. Poi, invece, in zona Cesarini raccontai la storia di un pugile, Stefano Zoff, Il Rocky di Monfalcone, come lo soprannominai, che quando conquistò il titolo di campione del mondo dei pesi leggeri, atterrato all'aeroporto di Ronchi dei Legionari di ritorno da Las Vegas non trovò nessuno a fargli festa. Fu in quella occasione che sentii parlare per la prima volta di morti di amianto alla Fincantieri. Si trattava di operai, tubisti, saldatori, isolatori, impiegati, ma anche delle donne addette alla pulizia della mensa, persino delle mogli che avevano lavato le tute da lavoro dei mariti. Tutti avevano inalato quella maledetta polvere. Non c'era una famiglia che non contasse tra la cerchia dei parenti un malato di asbestosi, o col carcinoma ai polmoni, non avesse visto una di queste persone soffrire per mesi e poi morire straziata per soffocamento. La cosa che mi colpì di più era che di questa tragedia non ne parlava nessuno. Anche in città c'era una rimozione fortissima. Una storia che ricordava La peste di Albert Camus, aveva la stessa irreale assurdità.
Qui incontrai la signora Nardi, dell'Associazione esposti, e il dottor Bianchi, l'epidemiologo che denunciò il fenomeno da un punto di vista medico e subì un isolamento vergognoso, come il dottor Manson ne La cittadella di Cronin, e poi l'ex isolatore termico Duilio Castelli, che è ancora vivo nonostante abbia i polmoni impestati di placche pleuriche, che da anni segue le storie umane dei colpiti, fa assistenza all'ospedale. Proprio lui, seduto su una tomba del cimitero di San Canzian d'Isonzo, mi raccontò la strana storia che quando uno dei suoi compagni se ne stava per andare all'altro mondo, lui vedeva la morte arrivare, e una figura fantasmatica nera con una falce luminosa che posava la sua mano sulla spalla del morente.
Sto tornando a Monfalcone dopo cinque anni, è una bella giornata di sole. Mi hanno invitato a un festival, Onde mediterranee, credo dovrò parlare di luoghi, ma anche di scrittura dal vero, quella dei San Tommaso che vogliono toccare con mano, vanno a vedere, e annusano come scriveva Walser. A Panzano, nella cittadella operaia, è tutto come sempre, al baretto un prosecco tira l'altro, ma gli operai bengalesi sono aumentati, la comunità ora è una città nella città, però un corpo separato, se ne vedono molti per strada, hanno aperto delle attività. Alloggio in un hotel centralissimo, il Lombardia, però gestito da napoletani.
Il pomeriggio incontro il giovane storico Enrico Bullian, ha scritto Il male che non scompare (Il ramo d'oro), ricerca che compendia (da un punto di vista scientifico, normativo, sociale ed economico) il successo della fibra killer. Con lui c'è un'altra ragazza dell'Associazione esposti, Chiara Paternoster, anche lei fresca di laurea in giurisprudenza, che segue gli aspetti legali. Ci sono interessanti novità sul fronte dei processi, il Tribunale di Gorizia, dopo cinque anni di strana inerzia, ha emesso due sentenze di condanna per omicidio colposo nei confronti di tre dirigenti della Fincantieri. «La svolta è arrivata dopo le nostre pressioni sul Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, perché cinque anni fa i processi non si facevano, quindi oltre a un problema legato alla riaffermazione di un principio di giustizia, in quanto queste persone hanno subito una lesione grave del loro diritto di sicurezza sul posto di lavoro, era addirittura negata la possibilità di vedere giudicata la cosa attraverso una sentenza».
All'epoca oltre mille fascicoli giacevano al calduccio negli armadi della Procura di Gorizia. L'associazione denunciò al Csm questa omissione, partì una inchiesta del Ministero di Grazia e Giustizia. «Intanto in Tribunale era arrivato come Procuratore generale Beniamino Deidda, che aveva un potere di controllo, il quale è da sempre sensibile ai temi della sicurezza, che si è subito interessato. Ma le cose non si sbloccavano, così un anno fa ha avocato quarantadue fascicoli, e cioè li ha fatti propri, ha costituito un pool di consulenti tecnici, e in sei mesi ha sequestrato quindicimila pagine di atti d'indagine, acquisito documenti alla Fincantieri, e così tutto è ripartito».
Pare ci sia addirittura una lettera che risale agli anni settanta, spedita dai vertici aziendali dell'allora Italcantieri ai dirigenti di Genova, dove si consiglia, tenuto conto dei tempi di incubazione della malattia, di non mettere a lavorare operai con meno di quarant'anni nei reparti dove si usa l'amianto. Una cosa agghiacciante, di una gravità inaudita, se confermata nel corso dei dibattimenti.
Le cose sono in movimento. Non solo i processi, non solo nei Tribunali. Questa storia è ora anche un corto notevole, Polvere, di Ivan Gergolet, storia di una donna «vedova dell'amianto» che per vendicarsi s'introduce nell'abitazione di colui che considera responsabile della morte del marito fingendosi badante.
Il giorno dopo incontro Mirella Bigot, che mi aveva raccontato la storia straziante e dolcissima di suo marito, e di come dentro una tragedia possano prendere posto anche sentimenti nobili come l'amore e la tenerezza. Ne rimasi molto colpito, tanto che alla fine ci abbracciammo in quel tinello rabbuiato e piangemmo. E' uscita dall'Associazione, vuole continuare da sola. Teme anche i tempi lunghi e il massacro mentale dei processi, che sono sempre un calvario per chi resta. Però è ancora molto indignata nei confronti dell'azienda. «Perché questi delinquenti sono rimasti così indifferenti?» Non si capacita. Ma allo stesso tempo è arresa, delusa. «Bisogna metabolizzare, non si può essere rabbiosi...alla fine, dopo il dolore, l'impotenza, resta la nostalgia. Il dolore è silenzio, meditazione».
La Nardi, invece, la signora Nardi, ora presidente dell'Associazione, «un'associazione dove c'è tanto dolore», come la definisce, è sempre combattiva. Biondissima e riccioluta quasi non la riconosco. Con lei c'è sua figlia Barbara. «Finalmente», mi dice, «la vita mi ha martoriata, sono stati anni difficili, ma siamo arrivati alla fine», dopo undici anni dalla scomparsa di suo marito non è però ancora pacificata. È ancora lei, arrabbiata, con l'imprinting politico della combattente: «Mi offendeva il silenzio degli altri, l'indifferenza, come se fosse normale tutto quello che stava succedendo. Questa storia mi ha insegnato che se vuoi puoi».
«Se sfogli un elenco telefonico ti accorgi che qui la popolazione è da sempre mista, i contagi etnici sono stati moltissimi», mi ha raccontato la mia amica Patrizia Giacometti, «si parlano dialetti diversissimi in un territorio di pochi chilometri, il Bisiaco, per esempio, un veneto arcaico che resiste in una zona geograficamente ben delimitata, dal Tanaro all'Isonzo, e anche dal Carso al mare, da Sagrato a Monfalcone, il triestino a Trieste, il graisano a Grado, mentre ad Aquileia parlano il friulano. I fiumi, i bracci di mare hanno fortemente influenzato la parlata locale».
Infatti, qui ti senti straniero, perché arrivarci non è facile, ed è straniero anche il mondo che abiti, tutto sembra solo appena sfiorato dagli orrori estetici. Anche se altri orrori, questo è il costo del capitale, sono in agguato. Nel 2020, infatti, si toccheranno i picchi più alti di mortalità per asbestosi. Ma è di oggi la notizia che il Tribunale di Gorizia ha accolto la richiesta delle parti civili e la Fincantieri andrà in giudizio in un maxi-processo che riguarda la morte di trentanove operai. Quegli stessi operai che «costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradì il profitto» come recita la frase dello scrittore Massimo Carlotto, che sta nel monumento a loro dedicato a pochi metri dai cantieri navali.

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