02/01/09

Hamas PARLA IL LEADER - MESHAAL: OBAMA SVOLTI, NELL'INTERESSE DEGLI USA

INTERVISTA | di Alain Gresh* - DAMASCO
Il capo del partito islamico che governa la Striscia racconta lo scontro con Abu Mazen e manda un messaggio al prossimo inquilino della Casa Bianca: «Ci vuole un cambiamento che risollevi l'immagine di Washington in Medio Oriente e risolva il conflitto con Israele»
«Hamas e le forze palestinesi hanno offerto un'occasione d'oro per portare una soluzione ragionevole al conflitto arabo-israeliano. Sfortunatamente nessuno l'ha colta, né l'amministrazione americana, né l'Europa, né il Quartetto». In una villa di Damasco, Khaled Meshaal, capo dell'ufficio politico di Hamas, moltiplica le interviste da quando, il 19 dicembre, è scaduto il cessate il fuoco con Israele a Gaza, e mentre il mandato del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) giunge al termine all'inizio di gennaio.
Meshaal gode di un'aura particolare dopo essere scampato per un pelo alla morte nel settembre 1997. Allora risiedeva ad Amman. Su ordine di Benyamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, un commmando dei servizi segreti israeliani gli aveva iniettato del veleno. Ma l'operazione si risolse in un fiasco, i membri del commando furono infatti arrestati dai giordani; il re Hussein pretese che il suo vicino gli consegnasse l'antidoto. Inoltre Israele accettò anche di liberare lo sceicco Ahmed Yassin, capo spirituale di Hamas (che è stato poi assassinato il 22 marzo 2004).
Hamas si difende dall'accusa di essere un ostacolo per la pace. «Noi abbiamo delle riserve rispetto al riconoscimento di Israele. Ciò nonostante, abbiamo detto che non saremo un ostacolo per la realizzazione dell'iniziativa araba del 2002. Gli arabi hanno moltiplicato le loro iniziative. Hanno rinnovato le loro proposte nel 2007. Ma, malgrado questo, la direzione israeliana rifiuta l'iniziativa di pace araba, la spezza in tante parti, gioca con le parole, moltiplica le manovre».
Il precedente del riconoscimento incondizionato dello stato d'Israele da parte dell'Olp non spingerà certo Hamas a seguire la stessa strada. Anche alla fine degli anni '80 gli Stati uniti esercitavano numerose pressioni sull'Olp, affinché questo riconoscesse ufficialmente lo stato d'Israele (senza mai precisare entro quali confini). Nel dicembre 1988 Arafat obbedì. Vent'anni dopo, lo stato palestinese ancora non esiste. Per Meshaal, così come per numerosi palestinesi, a cosa servirebbero ulteriori concessioni? Dopo tutto Abbas ha già fatto tutte le concessioni richieste, e i negoziati che porta avanti da anni non sono avanzati...
Meshaal sembra essere ben determinato. Dopo la vittoria alle elezioni amministrative nel gennaio 2006, e malgrado tutte le pressioni, Hamas resta ancora un attore che non può essere ignorato, soprattutto dopo che, nel giugno 2007, ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. Tanto più che è riuscito a infliggere una sconfitta militare ad Israele, che ha costretto quest'ultimo a cercare un cessate il fuoco.
È questo cessate il fuoco (o piuttosto tahdi' a, «ritorno alla calma», in arabo), negoziato sotto l'egida dell'Egitto, che è giunto a scadenza il 19 dicembre. Perché?
«Il cessate il fuoco non è terminato a causa di una decisione. Doveva concludersi in capo a sei mesi, ed è esattamente quello che è successo. L'accordo comprendeva tre punti: il cessate il fuoco tra le parti; l'estensione del cessate il fuoco, nel giro di qualche mese, alla Cisgiordania; la fine del blocco di Gaza. D'altra parte c'era un impegno dell'Egitto ad aprire il punto di passaggio di Rafah».
«Questi impegni non sono stati rispettati da Israele se non in maniera molto parziale. Sì, il livello di violenza si è abbassato, le aggressioni contro Gaza sono diminuite, ma non si sono arrestate ( 25 palestinesi sono stati uccisi dopo la firma dell'accordo). Quanto al resto, niente è stato concluso. I punti di passaggio che avrebbero dovuto essere riaperti entro i dieci giorni seguenti il 19 giugno, sono stati aperti in misura molto minore rispetto al previsto. E, nell'ultimo periodo, la situazione a Gaza è divenuta peggiore rispetto a prima dell'accordo». «A giugno il 94% della popolazione di Gaza era a favore dell'accordo. Oggi le persone sono contrarie, perché esso non ha realizzato ciò che per loro è essenziale: la rimozione del blocco».
Meshaal aggiunge: «In ogni caso la tahdi' a non poteva che essere provvisoria. Perché ciò che è all'origine della situazione, è l'occupazione, e l'occupazione genera la resistenza. Noi facciamo una guerra difensiva, non una guerra d'aggressione».
Sul territorio i combattimenti sono ricominciati. Ai raid israeliani rispondono i razzi palestinesi. La stampa israeliana evoca un'operazione su larga scala contro la Striscia di Gaza, e Tzipi Livni, ministra degli esteri israeliana, dichiara che bisogna sbarazzarsi di Hamas con tutti i mezzi. Ma che cosa si può tentare d'altro, se non un ritorno all'occupazione diretta di Gaza?
Hamas dispone di sostegni regionali, in primo luogo Siria e Iran. Diversi paesi del Golfo hanno mantenuto relazioni con il movimento. La Giordania, dopo un lungo periodo di boicottaggio, ha iniziato un dialogo con l'organizzazione. Con spirito pragmatico, il re Abdallah ha dovuto tener conto del fallimento dei tentativi di eliminare Hamas, che dispone di appoggi importanti nel regno, in particolare l'organizzazione dei Fratelli musulmani. D'altra parte i negoziati israelo-palestinesi sono in un'impasse, e l'assenza di qualsiasi soluzione per la questione dei rifugiati - ci sono diversi milioni di palestinesi in Giordania - fa temere al sovrano la ripresa dell'idea che la Giordania debba essere lo stato palestinese, idea agitata a più riprese dalla destra israeliana.
Ora, Hamas si oppone sia a questa idea, sia a quella dell'installazione definitiva dei rifugiati nel paese d'accoglienza.Il problema per Hamas resta la disposizione dell'Egitto. Il Cairo ha gestito direttamente la Striscia di Gaza tra il 1949 e il 1967, e ha un'influenza reale. L'Egitto è stato il padrino dell'accordo della tahdi'a tra Hamas e Israele. Pertanto non considera che Hamas, che ha vinto le elezioni del 2006, sia l'autorità legittima; lo vede piuttosto come una semplice estensione dei Fratelli musulmani, la principale forza d'opposizione, molto repressa, al regime del presidente Mubarak. Inoltre l'Egitto, firmatario di un accordo di pace con Israele, preferisce la «morbidezza» di Abbas all'«intransigenza» di Hamas. È forse questo che permette di comprendere come mai Il Cairo rifiuta di aprire il passaggio di Rafah tra l'Egitto e Gaza, apertura che consentirebbe di rompere il blocco ma che sarebbe interpretata come una vittoria di Hamas?
«Noi vogliamo buone relazioni con i paesi arabi - spiega Meshaal - non siamo mai all'origine della rottura con questo o quell'altro. Trattiamo sempre con i governi, mai con le forze d'opposizione; non ci immischiamo negli affari interni».
Un ritorno all'unità palestinese è concepibile? Dopo che Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza, i ponti tra gli islamici e il presidente Abbas si erano rotti.
«Ci sono due tappe nei tentativi di riconciliazione tra il potere di Ramallah e noi. All'inizio il potere non voleva accordi, a causa dei veti americani e israeliani: perché pensava che noi saremmo affondati a Gaza sotto l'effetto del blocco; e che il vertice di Annapolis avrebbe portato ad uno sfondamento. In seguito, messe in scacco queste speranze - e con l'arrivo al potere di un nuovo presidente negli Stati uniti, e anche, in febbraio, di un nuovo premier israeliano - la presidenza palestinese ha cambiato posizione. Gli è sembrato necessario cercare di ottenere un accordo che permettesse di presentare, sotto la direzione di Abbas, un progetto palestinese unificato. E, per esser franco, alcuni sperano che l'accordo garantisca la tenuta delle elezioni e la rimozione di Hamas dal potere per via elettorale. Ma questo mostra come la volontà di riconciliazione si appoggi su basi false, e spiega anche perché sia fallita».
La regione attraversa una fase d'attesa. Le elezioni generali avranno luogo in Israele il 10 febbraio. Tra meno di un mese Barack Obama prenderà le funzioni presidenziali. Si va verso dei cambiamenti? «All'inizio il nuovo presidente dovrà ammorbidire la politica americana per due ragioni. Prima di tutto perché l'amministrazione Bush ha fallito, ha portato l'impasse nella regione. Inoltre poiché la non risoluzione del conflitto arabo-israeliano, e la non soluzione della questione palestinese su una giusta base, porteranno l'instabilità non soltanto nella regione ma nel mondo intero. È dunque nell'interesse degli Stati uniti sopprimere le cause dell'ostilità agli americani nella regione e nel mondo musulmano».
Meshaal riflette un momento poi aggiunge: «C'è una terza ragione. Se Obama vuole ridare un ruolo più effettivo agli Stati uniti nel mondo, deve trattare il Medioriente in una maniera differente. Su molti dossier si sono allineati ad Israele e alla lobby sionista. Questo cambiamento si produrrà? In questo stadio, non saprei rispondere. Ma, per quanto ci riguarda, avremo un atteggiamento positivo e risponderemo in maniera responsabile a ogni iniziativa americana che terrà conto dei diritti dei palestinesi».

(Traduzione di Nicola Vincenzoni)

* giornalista di Le Monde diplomatique. Tratto da http//blog.mondediplo.net

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