Ai funerali di Giuseppe L'operaio ha meno valore, meno tutela, meno diritti che nella schiavitù, o nei Comuni. Perché al centro non c'è più l'uomo ma il profitto
Loris Campetti
«Diceva Bertolt Brecht che quando uno schiavo si libera dalla schiavitù e diventa un operaio perde i diritti che aveva. Come schiavo era tutelato, gli veniva garantito un abito, persino una moglie gli veniva trovata. Da operaio perde di valore, di peso, perde diritti. Catullo diceva che allo schiavo bisognava dare allegrezza, ilarità, sennò avrebbe intristito le stanze del potere». Il premio Nobel Dario Fo ha partecipato ieri ai funerali di Giuseppe Demasi, la terza vittima della strage targata ThyssenKrupp, insieme alla sua compagna Franca Rame. Parlare con lui di morti sul lavoro costringe a modificare gli attrezzi del lavoro giornalistico, ripescando categorie troppo velocemente abbandonate nell'interpretazione della realtà. Sembra un paradosso quello messo in scena da Dario Fo: lo schiavo antico era più rispettato e tutelato dell'operaio moderno. Eppure ha un fondo di verità, perché «la nostra società ha messo al centro il profitto. L'interesse per il profitto viene prima di tutto, prima della vita dei lavoratori».
Perché hai deciso di partecipare ai funerali di Giuseppe, la settima vittima della strage consumata alla Thyssenkrupp?
Sono andato perché ho avuto una lunga frequentazione con le lotte operaie a Torino e Milano, alla Fiat e nelle piccole aziende. Sette operai uccisi, ci pensi? Ricordo una canzone, «Morire per campare» dentro lo spettacolo «Ci ragiono e canto» che raccontava dei poveri operai del sud costretti a salire a Milano e a Torino e per tirare avanti mettevano a rischio la propria vita.
Cosa hai provato al funerale?
Sconvolgente. Una chiesa fredda, completamente impregnata di corpi, gente semplice, operai, volti e mani di chi sa cos'è il lavoro. Con Franca abbiamo abbracciato tante persone, compagni di lavoro, parenti, amici. Un operaio mi ha detto che i padroni pagano le multe per il mancato rispetto delle leggi sulla sicurezza, ma se ne fregano, perché le multe costano molto meno che tenere a regola gli impianti. E un altro mi ha detto: almeno ci pagassero il prezzo pagato per un bue. Mi è tornato alla mente quell'industriale del milanese che ha cosparso di benzina e poi bruciato un operaio rumeno che rivendicava i suoi diritti, il prezzo pattuito. E' stato in galera solo qualche anno, quel padrone. Il cardinale Poletto ha fatto un discorso corretto in cui si ribadiva il rispetto per la persona umana che viene prima della produzione e del profitto.
Siamo nel terzo millennio e si muore sul lavoro come ai tempi dei padroni del vapore.
Noi abbiamo rimesso in piedo lo spettacolo «Non si paga, non si paga» e un importante critico di Repubblica ci ha criticato, accusandoci di non esserci accorti che il mondo è cambiato. Ma i tempi sono cambiati davvero? E come sono cambiati? Dire che oggi siamo più avanti sulla sicurezza è una grande balla. Ci sono degli Statuti tra la fine del 1100 e il 1200, per esempio in Toscana, da cui emerge una grande attenzione alla tutela dei lavoratori che oggi diremmo dell'impiantistica, impegnati nella costruzione di torri, palazzi, chiese. L'inizio dei lavori veniva dato dal maestro della pietra del comune che dava il via solo dopo accurato controlli. Era sua la responsabilità prima di eventuali disastri, poi veniva quella della persona per cui l'opera veniva edificata e l'imprendtore edile era l'ultimo responsabile. Per il semplice fatto che dare la responsabilità della sicurezza al padrone vuol dire lasciare mano libera alla corruzione, perché il padrone ha interesse solo al profitto. Come mi diceva quell'operaio, preferisce pagare le multe che garantire la sicurezza. Con la nascita dell'Umanesimo l'individuo, e non il profitto, era messo al primo posto. Persino la massoneria, alle sue origini, metteva al centro il lavoratore, la vita dell'operaio: masson è il muratore.
L'Italia ha il triste primato degli infortuni sul lavoro.
Ti faccio un esempio. Ho lavorato due mesi in Finlandia per mettere in scena uno spettacolo; sai che durante le prove erano sempre presenti i vigili del fuoco? Da noi il servizio antincendio c'è solo durante gli spettacoli.
Pensi davvero che le condizioni dello schiavo fossero migliori di quelle dell'operaio?
Ti ricordi la canzone «Ho visto un re»?
Come no: il re, il vescovo, il ricco, tutti che avevano perso qualche privilegio e piangevano, chi sul cavallo e chi nel vino, chi mordeva la mano del sacrestano. Solo il «vilan», un contadino, ridacchiava... un altro paradosso?
«Che sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam». Dove chedi che abbia pescato queste parole, se non dallo studio di Bertold Brecht e dagli scritti di Catullo? Allo schiavo bisogna dare allegrezza, ilarità, per evitare che le sue lacrime possano intristire le stanze del potere. Oggi gli operai non valgono neppure il prezzo di un bue, perché al centro della storia non c'è l'uomo, c'è il profitto.
«Diceva Bertolt Brecht che quando uno schiavo si libera dalla schiavitù e diventa un operaio perde i diritti che aveva. Come schiavo era tutelato, gli veniva garantito un abito, persino una moglie gli veniva trovata. Da operaio perde di valore, di peso, perde diritti. Catullo diceva che allo schiavo bisognava dare allegrezza, ilarità, sennò avrebbe intristito le stanze del potere». Il premio Nobel Dario Fo ha partecipato ieri ai funerali di Giuseppe Demasi, la terza vittima della strage targata ThyssenKrupp, insieme alla sua compagna Franca Rame. Parlare con lui di morti sul lavoro costringe a modificare gli attrezzi del lavoro giornalistico, ripescando categorie troppo velocemente abbandonate nell'interpretazione della realtà. Sembra un paradosso quello messo in scena da Dario Fo: lo schiavo antico era più rispettato e tutelato dell'operaio moderno. Eppure ha un fondo di verità, perché «la nostra società ha messo al centro il profitto. L'interesse per il profitto viene prima di tutto, prima della vita dei lavoratori».
Perché hai deciso di partecipare ai funerali di Giuseppe, la settima vittima della strage consumata alla Thyssenkrupp?
Sono andato perché ho avuto una lunga frequentazione con le lotte operaie a Torino e Milano, alla Fiat e nelle piccole aziende. Sette operai uccisi, ci pensi? Ricordo una canzone, «Morire per campare» dentro lo spettacolo «Ci ragiono e canto» che raccontava dei poveri operai del sud costretti a salire a Milano e a Torino e per tirare avanti mettevano a rischio la propria vita.
Cosa hai provato al funerale?
Sconvolgente. Una chiesa fredda, completamente impregnata di corpi, gente semplice, operai, volti e mani di chi sa cos'è il lavoro. Con Franca abbiamo abbracciato tante persone, compagni di lavoro, parenti, amici. Un operaio mi ha detto che i padroni pagano le multe per il mancato rispetto delle leggi sulla sicurezza, ma se ne fregano, perché le multe costano molto meno che tenere a regola gli impianti. E un altro mi ha detto: almeno ci pagassero il prezzo pagato per un bue. Mi è tornato alla mente quell'industriale del milanese che ha cosparso di benzina e poi bruciato un operaio rumeno che rivendicava i suoi diritti, il prezzo pattuito. E' stato in galera solo qualche anno, quel padrone. Il cardinale Poletto ha fatto un discorso corretto in cui si ribadiva il rispetto per la persona umana che viene prima della produzione e del profitto.
Siamo nel terzo millennio e si muore sul lavoro come ai tempi dei padroni del vapore.
Noi abbiamo rimesso in piedo lo spettacolo «Non si paga, non si paga» e un importante critico di Repubblica ci ha criticato, accusandoci di non esserci accorti che il mondo è cambiato. Ma i tempi sono cambiati davvero? E come sono cambiati? Dire che oggi siamo più avanti sulla sicurezza è una grande balla. Ci sono degli Statuti tra la fine del 1100 e il 1200, per esempio in Toscana, da cui emerge una grande attenzione alla tutela dei lavoratori che oggi diremmo dell'impiantistica, impegnati nella costruzione di torri, palazzi, chiese. L'inizio dei lavori veniva dato dal maestro della pietra del comune che dava il via solo dopo accurato controlli. Era sua la responsabilità prima di eventuali disastri, poi veniva quella della persona per cui l'opera veniva edificata e l'imprendtore edile era l'ultimo responsabile. Per il semplice fatto che dare la responsabilità della sicurezza al padrone vuol dire lasciare mano libera alla corruzione, perché il padrone ha interesse solo al profitto. Come mi diceva quell'operaio, preferisce pagare le multe che garantire la sicurezza. Con la nascita dell'Umanesimo l'individuo, e non il profitto, era messo al primo posto. Persino la massoneria, alle sue origini, metteva al centro il lavoratore, la vita dell'operaio: masson è il muratore.
L'Italia ha il triste primato degli infortuni sul lavoro.
Ti faccio un esempio. Ho lavorato due mesi in Finlandia per mettere in scena uno spettacolo; sai che durante le prove erano sempre presenti i vigili del fuoco? Da noi il servizio antincendio c'è solo durante gli spettacoli.
Pensi davvero che le condizioni dello schiavo fossero migliori di quelle dell'operaio?
Ti ricordi la canzone «Ho visto un re»?
Come no: il re, il vescovo, il ricco, tutti che avevano perso qualche privilegio e piangevano, chi sul cavallo e chi nel vino, chi mordeva la mano del sacrestano. Solo il «vilan», un contadino, ridacchiava... un altro paradosso?
«Che sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam». Dove chedi che abbia pescato queste parole, se non dallo studio di Bertold Brecht e dagli scritti di Catullo? Allo schiavo bisogna dare allegrezza, ilarità, per evitare che le sue lacrime possano intristire le stanze del potere. Oggi gli operai non valgono neppure il prezzo di un bue, perché al centro della storia non c'è l'uomo, c'è il profitto.
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