La Comedil, azienda che assembla gru per cantieri a Cusano Milanino (Mi), è oggetto di una dura lotta dei lavoratori per mantenere il proprio posto di lavoro e impedire la chiusura dello stabilimento. I 49 operai della fabbrica hanno sfidato la proprietà piantando una tenda permanente davanti ai cancelli dell’azienda per impedire l’ingresso ai camion che dovrebbero portare via le gru terminate.
Abbiamo intervistato Ambrogio Casati, delegato Fiom, che ci ha raccontato la storia sindacale degli ultimi anni dell’azienda e quali decisioni i lavoratori stanno mettendo in campo per lottare contro la chiusura.
Cominciamo dall’inizio. Quali sono le tradizioni sindacali della fabbrica?
Per quasi 20 anni abbiamo sempre ottenuto ottimi contratti interni. Nel 2003 siamo riusciti a firmare un precontratto con un aumento superiore alla media nazionale, attraverso ben 3 giorni di fila di sciopero, picchetti davanti ai cancelli e 12 ore consecutive di trattativa. Riuscimmo a fare assumere anche due lavoratori interinali. Anche sul terreno degli straordinari abbiamo sempre siglato dei buoni accordi, mediamente superiori a quelli ottenuti a livello nazionale.
Per molto tempo siamo riusciti a superare i periodi di cassa integrazione e questa è una cosa importante, soprattutto se si pensa che lo stabilimento di Cusano è una filiale: la sede centrale è a Pordenone, dove si producono gru per cantieri di taglia e modello differente da quelle che produciamo qui.
Le prime avvisaglie della crisi si sono manifestate nel 2007: nella sede centrale di Pordenone c’erano molte più commesse e la direzione voleva aprire qui la cassa integrazione. Abbiamo sempre fatto molti sacrifici per mantenere i livelli produttivi dell’azienda: trovammo un accordo per cui, pur di evitare la cassa integrazione per questa sede, avremmo mandato quattro lavoratori su a Pordenone per colmare le mancanze di manodopera e colmare la produzione.
Il 19 dicembre del 2007 l’azienda ci comunicò l’intenzione di non riconfermare 4 lavoratori interinali e uno a tempo determinato: i padroni avevano ben studiato la mossa perchè avevano comunicato i licenziamenti il giorno della consegna del contratto interno. Tale decisione fu comunicata ai lavoratori il giorno seguente. Votammo e cominciammo uno sciopero ad oltranza: nella riunione di fine giornata approvammo la proposta di reintegro di tutti i licenziati non appena fosse ripartita la produzione, da sottoporre all’azienda. Ma i padroni fecero una chiusura totale nei confronti della nostra proposta e ci dissero che con 100 gru invendute in magazzino non avrebbero assunto proprio nessuno. Il ricatto era evidente: usare la crisi per strapparci un contratto interno più morbido.
Due dei cinque lavoratori hanno fatto causa al giudice che ha dato loro ragione: ora devono decidere se essere reintegrati.
Come è scoppiata la lotta attuale?
Per tutto il periodo successivo, ossia dall’inizio del 2008, i padroni continuavano ad assicurarci che non avrebbero mai fatto uso della cassa integrazione fino a dicembre 2008. In realtà stavano solo prendendo tempo, utilizzando questa tattica per otto lunghi mesi.
L’azienda in questi anni ha prodotto tantissimo: la direzione, proprietaria delle azioni quotate a Wall Strett, ha fatto affari d’oro senza che un centesimo di queste rendite venisse riversato nelle tasche degli operai. Nonostante la crisi, i padroni continuavano a dirci che volevano mantenere la filiale di Cusano e che l’unico problema sarebbe stato quello di alzare i ritmi di lavoro: volevano che con lo stesso personale arrivassimo a 1000 gru all’anno attraverso l’impiego di un modello di sfruttamento del lavoro maggiore. Per presentarci questo modello toyotista, che loro chiamavano modello Tbs, i padroni americani sono addirittura arrivati fin qui.
In realtà non hanno fatto altro che usarci come cavie: applicare su di noi questi standard produttivi, consapevoli da tempo che avrebbero chiuso l’azienda, per poi svilupparlo da altre parti.
A giugno, con l’azienda che respirava aria di crisi, hanno addirittura cercato di scaricarci in busta paga le loro azioni, ormai senza valore. Che ipocrisia! Quando l’azienda fioriva non ci hanno mai offerto nulla.
Nel mese di ottobre del 2008 la direzione ha gettato la maschera e ha comunicato la volontà di aprire la cassa integrazione: siamo riusciti ad ottenere un buon accordo, attraverso l’apertura di una cassa integrazione a rotazione per 27 dipendenti. Anche questo lo abbiamo fatto pur di mantenere il sito produttivo e tutti i posti di lavoro.
L’accordo prevedeva la cassa integrazione a rotazione fino al 6 febbraio 2009. A dicembre ci hanno convocato all’Assolombarda per comunicarci che avrebbero chiuso lo stabilimento di Cusano e che tutto il lavoro sarebbe stato portato a Pordenone.
Come è stata sviluppata la trattativa?
Fin dall’inizio realizzammo come la crisi fosse stata un pretesto per la direzione che aveva deciso di chiudere la filiale molto tempo prima. Infatti quando fummo convocati per la seconda volta all’Assolombarda non si presentò nemmeno un membro della direzione. Ci ritrovammo a trattare con l’avvocato dei padroni e il funzionario dell’Assolombarda.
Fin dall’inizio abbiamo fatto causa per comportamento antisindacale: la direzione ha violato l’accordo che prevedeva la cassa ordinaria per 13 settimane. Avremo l’udienza il 5 febbraio: in caso di vittoria deve continuare la cassa integrazione e va riaperta successivamente la trattativa .
Il lavoro di certo non ci manca e siamo sicuri che arriveranno ancora ordini.
Devo dire che stiamo ricevendo la solidarietà di molti lavoratori ed anche delle istituzioni: la tenda della Protezione Civile è stata fornita dal comune. Noi prima dormivamo in macchina per preservare le gru finite e quelle da finire: qui infatti assembliamo e non abbiamo grandi macchinari da difendere, ma il valore degli ordini terminati è molto alto ed è la nostra forma di pressione più grande. Non deve uscire nulla da qui.
E’ una lotta dura: qui vi sono anche lavoratori con problemi di salute –
qui interviene Mario, 54 anni, che ci spiega come abbia preso per mesi 500€ di stipendio perchè ha formalmente superato la soglia della malattia. L’azienda ha a disposizione il fondo Inps per la patologia ma stanno facendo di tutto per rinviare il problema, come se la malattia fosse un fastidio per loro e una colpa per l’operaio.
Cosa avete intenzione di fare adesso?
Il presidio serve a non fare uscire le gru. Siamo determinati ad andare fino in fondo per riottenere il nostro posto di lavoro: è in gioco il futuro di 45 lavoratori, delle loro famiglie e di una fabbrica all’avanguardia. La nostra lotta è innanzitutto per il mantenimento del posto di lavoro: se non riusciamo a salvare questa fabbrica i padroni devono trovarci un altro posto di lavoro.
Abbiamo ancora molto materiale in azienda e molte gru da terminare: il lavoro non mancherebbe, nè mancherebbero gli ordinativi. Voglio ricordare che questa azienda, nonostante la crisi, ha terminato l’anno in attivo. La direzione sta chiudendo solo perchè ha guadagnato un po’ meno.
Ci è stato comunicato dal comune che l’area avrebbe un interesse commerciale se l’azienda dovesse chiudere. Visto che quest’anno ci saranno le elezioni speriamo davvero che non vinca la destra.
Ci sono altre aziende in crisi nella zona?
La Metalli Preziosi, a Paderno, ha una crisi che si protrae ormai da diversi anni: sembra che ora abbiano trovato un acquirente. Stiamo cercando di coordinarci come aziende in crisi: per adesso noi della Comedil siamo in contatto con i lavoratori della Metalli Preziosi e della Innse. Cerchiamo di tenerci in contatto per le assemblee, per i presidi, anche se non siamo propriamente organizzati: cerchiamo di fare le cose a mano a mano che si sviluppano.
Questa vertenza può diventare un esempio: quali passi si possono fare per rompere l’isolamento di queste aziende in crisi?
Abbiamo cominciato con l’aprire fin da subito una cassa di resistenza. In generale, pensiamo che le istituzioni debbano impegnarsi tanto quanto ci stiamo impegnando noi per salvare la fabbrica. Certo, la Provincia ha avuto un incontro con l’azienda: forse però il problema è stato permettere l’insediamento di questa multinazionale nelle aziende del territorio senza alcuna forma di controllo.
Siamo ancora tutti uniti: stiamo votando democraticamente ogni passo della vertenza, dalle parole d’ordine della trattativa ai turni nella tenda. Stiamo sfruttando tutti i canali di comunicazione a nostra disposizione: dai volantinaggi ai mercati all’apertura di un blog (il blog ha il seguente indirizzo:
http://terexusaegetta.blogspot.com). I padroni americani temono moltissimo la cattiva pubblicità, soprattutto in un periodo di forte turbolenza finanziaria. Mercoledì 28 gennaio andremo davanti ai cancelli della fabbrica di Pordenone a far sentire le nostre ragioni.
In fabbrica facciamo tutto noi: non esiste nessun aspetto dell’assemblaggio che non passi dalle nostre mani.
Ma a parte questo, siamo noi che mandiamo avanti ogni aspetto della fabbrica ogni giorno.
Questo aumenta la nostra volontà ad andare avanti tutti insieme per mantenere la fabbrica e il posto di lavoro di ognuno di noi